Regista fra le più apprezzate del teatro italiano, sia di prosa sia lirico, fondatrice della compagnia di ricerca Atir e fautrice di un’offerta culturale al servizio dei cittadini, Serena Sinigaglia è dallo scorso anno co-direttore artistico del Teatro Carcano, da cui ha appena lanciato un progetto triennale dedicato a El nost Milan.
DI PAOLO CRESPI
20 December 2022
Sono molti, e tutti molto graditi, tra cui, quattro o cinque anni fa, quello inaspettato del Festival di Radicondoli per i “maestri” del teatro, un titolo cui di solito si approda in un’età più avanzata. Mi dispiace invece per l’unico che ancora non ho vinto, l’Ubu. Magari non l’ho mai meritato, ma un dubbio c’è: quando ero ancora una bimbetta, al Festival di Volterra ci fu un misunderstanding con Franco Quadri, fondatore del premio, che da allora mise un anatema sul mio nome. Una brutta storia, passata tra l’altro sopra la mia testa, che sarebbe bello venisse prima o poi superata.
Durante gli anni di formazione soprattutto Gabriele Vacis e Gigi Dall’Aglio, i due registi con i quali sono stata più profondamente a contatto, per i quali ho fatto più assistenze e con cui è nata un’amicizia artistica che dura tuttora. Poi i miei compagni di strada: l’avventura del gruppo Atir è stata estremamente formativa, anche perché il teatro è un mestiere che in gran parte impari facendolo. E per ultimo tutti i grandi autori che ho letto, a partire da Dostoevskij, il mio mito.
Nadia Fulco, Mattia Fabris, Arianna Scommegna, Fausto Russo Alesi, Maria Spazi, Stefano Orlandi, Matilde Facheris, Sandra Zoccolan… A loro più recentemente si è aggiunta Lella Costa, per l’intimità del rapporto che si è creato con lei, qui al Carcano.
La prima parte della domanda andrebbe girata al presidente del teatro, Carlo Gavaudan, e a Mariangela Pitturru, che è co-direttrice insieme a noi. Siamo tre, Lella dice che siamo “le tre streghe del Macbeth”… Il sodalizio con lei è di lunga data, iniziato attraverso l’amicizia con sua figlia Arianna, la primogenita. Lella quando poteva ci dava una mano al Teatro Ringhiera (oggi chiuso per ristrutturazione, NdR), che come compagnia dirigevano: il suo nome era di richiamo per portare il pubblico in una sede “difficile”, di periferia. Con Mariangela ci siamo avvicinate qualche anno fa, quando fui chiamata per fare la regia di un suo spettacolo. Il contributo mio e di Lella è quello di dare una visione ai programmi del teatro, lei anche come front girl, mentre io, anche se non ne ho esattamente il fisique du rôle, me la gioco più come l’intellettuale del gruppo, quella che fa pensiero e sintesi, o almeno ci prova. E Mariangela è la mente organizzativa, che media le proposte del teatro – centro di produzione oltre che sala di ospitalità – anche con l’imprescindibile aspetto economico.
Essendo la nostra una direzione artistica molto giovane, abbiamo dovuto per forza di cose concentrarci sulle nostre produzioni, non per una forma di megalomania ma proprio per dare identità al progetto e riferimenti al pubblico che sta imparando a conoscere le nuove “padrone di casa”. Ecco quindi Le nostre anime di notte dal romanzo di Kent Haruf, con Lella Costa ed Elia Schilton, regia mia, e progetti come El Nost Milan, che raccontano chiaramente un certo tipo di sguardo sulla cultura teatrale e la forte connessione con le persone, con la gente. O ancora il mio allestimento delle Supplici. Tutti gli altri titoli sono stati scelti seguendo alcuni criteri che ci siamo date, di cui il primo è un’attenzione originale e “militante” al femminile. È il caso paradigmatico dell’ospitalità di uno spettacolo audace quale Svelarsi, di Silvia Gallerano. C’è poi tutto il discorso del teatro nazionalpopolare di qualità, in senso gramsciano, con il recupero di testi importanti come Otello, con la regia di Baracco e un cast di sole donne, o di Gemelli veneziani, di Malosti: sono in continuità con la storia recente del Carcano ma hanno anche una marcia in più rispetto alle “normali” messinscene. E poi quella presa diretta sulla realtà che sono in grado di offrirci moderni ‘aedi’ come Giuliana Musso, in cartellone a gennaio con un lavoro sulla violenza di genere, o Mario Perrotta, ospite in marzo con un’indagine sul concetto di libertà, ispirata a Calvino (l’anno scorso a incarnare il teatro di narrazione avevamo avuto Ascanio Celestini).
La mia scelta si basa sulla vocazione sviluppata in più di vent’anni di lavoro sul territorio con Atir. L’idea condivisa con tutto il gruppo, a cominciare da Arianna Scommegna, una delle più grandi attrici di prosa che abbiamo in Italia, e da Nadia Fulco, anima dell’intero progetto sociale della compagnia, era che lo spettacolo fine a se stesso non ci bastava. Il compito, l’impegno civile di un attore, di un regista, di chi ama il teatro è, oggi più che mai, farlo per la strada, per le persone e con le persone, strumento privilegiato per migliorare la qualità delle relazioni umane. Avendo attivato un’enorme community intorno alle nostre attività e non avendo più una casa dove trovarci, soltanto la forza di una narrazione comune poteva tenerci legati. Così, dopo il progetto di Odissea, il recupero di un’identità storica, citando un grande maestro come Strehler, mi è sembrato un trait d’union potente, in grado di collegare l’esperienza di 160 cittadini milanesi che hanno frequentato i nostri laboratori e altrettanti artisti che li coordinano e li guidano sul palco in un’azione scenica che ha il suo fulcro proprio qui al Carcano, dove tutto è iniziato.
Il dato confortante, di cui bisogna dare atto alla giunta comunale (quella di Pisapia e poi quella attuale di Sala) è che tornerà a essere una sala teatrale. Più bella, funzionale e accogliente di prima. La preoccupazione è legata ai tempi lunghi, temo non sarà prima del 2025. La gestione verrà poi messa a bando, dato che si tratta di un bene pubblico, e anche noi vi concorreremo.
No. Come omosessuale, di una generazione meno intraprendente dei venti-trentenni di oggi e orfana di padre dall’età di dieci anni, quand’ero più giovane l’idea di formare una famiglia non tradizionale che non potesse offrire a un figlio anche una figura maschile di riferimento mi spaventava. Con la testa che ho ora forse ci avrei pensato, ma è tardi. Il mio istinto di maternità l’ho sfogato in molti altri modi…
A Re Lear, da Shakespeare, perché è dedicato appunto alla memoria di mio padre, che mi è mancato troppo presto. E sono anche molto legata al romanzo che ho pubblicato per Rizzoli, E fu tutto diverso. Non essendo il mio mestiere, il fatto di esserci riuscita mi ha riempita di gioia.
La forza della musica. E poi la regia di un’opera è un esercizio fantastico. Nella prosa se hai un grande testo e dei bravi attori puoi sfangarla. Nella lirica, se non possiedi anche la tecnica non ce la fai, soccombi. Frequentarla mi ha insegnato ad affinare la mia progettualità, a prepararmi a fondo. Una grande scuola. E un grande divertimento.
Sono fanatica di Milano sud, del Parco Agricolo, di Cascina Campazzo… Sono nata e cresciuta in quelle zone, dov’era anche il Ringhiera, e non voglio andarmene. Il sud è corto, agricolo, e oggi esprime anche una meravigliosa promiscuità di popoli. Lo amo, mentre mi perdo nel nord industriale di Milano: lo trovo troppo asettico, non mi appartiene. Come molti residenti, io e i miei fratelli siamo la prima generazione milanese della nostra famiglia. Posso solo dire che in tanti anni ho visto cambiare profondamente la metropoli. Nel ventennio berlusconiano ho fatto molta fatica a viverci, in questo percepisco una tristezza che è però generale. Una situazione critica che l’umanità intera sta attraversando. E a Milano queste cose le avverti di più perché è una città trasparente.
Minima, sono negata. Come tutti quelli che hanno una certa età uso Facebook come una sorta di diario digitale delle cose che faccio. Quando il tuo diario mentale è esaurito le ritrovi tutte lì, in bacheca.
Ce ne sono diverse. Guardo e ascolto tutto ciò che è crime, ho una passione per la ginnastica, che pratico con soddisfazione, e amo naturalmente la lettura. E mi appassiona la politica, che riguarda comunque il mio lavoro, dato che mi identifico al cento per cento con ciò che faccio. Certo, oggi il panorama non è allettante. Soprattutto per me, che appartengo in pratica tutte le categorie a rischio. E anche quella che dovrebbe essere la mia parte, da tempo non lo è più. A volte ripenso con nostalgia ai movimenti extraparlamentari degli anni Settanta-Ottanta. Il mio imprinting politico risale a quell’epoca. Non essendo mai stata particolarmente affezionata ai grandi partiti ero e resto fondamentalmente anarchica. Di un anarchismo pacifista, naturalmente.