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PERSONE

Renato Sarti

Il teatro della sopravvivenza

Come i grandi del passato, il direttore del Teatro della Cooperativa, milanese d’adozione, riunisce in sé i ruoli di autore, attore e regista. E guarda al nuovo anno con la seconda parte di una stagione militante che pesca il suo pubblico un po’ ovunque, oltre che a Niguarda

DI PAOLO CRESPI

06 February 2024

Da Trieste, dove sei nato, da ragazzo sei partito due volte per Milano, la seconda per non voltarti più indietro. Cosa cercavi?

La prima volta, nel 1969, a 17 anni, era per fare arte, a Brera. Ma il vero obiettivo era scappare da Trieste, dove oltre alla bora spirava un’aria troppo ordinata e ordinaria, per me insopportabile. Invece ci tornai per qualche anno, dato che mio padre stava male. Il secondo trasferimento a Milano, questa volta definitivo, fu a 23 anni, appena in tempo per iscrivermi alla Civica di teatro. Alle selezioni per il corso attori c’erano con me altri due triestini, anche loro reduci dalla compagnia del teatrino dell’ospedale psichiatrico della nostra città, la mia prima esperienza di gestione di una sala di spettacolo, senza affitto da pagare e anche senza riscaldamento. Unica condizione: porte sempre aperte agli utenti della struttura ex manicomiale, tutti assidui frequentatori delle nostre prove e spesso tentati di entrare in gioco a rappresentare se stessi. Tra loro c’erano la Norma e la Brunetta, che da giovani erano state lobotomizzate e portavano impressa sul volto la violenza cieca del potere…

È vero che la prima avventura teatrale a incidere profondamente sulla tua formazione fu un’opera lirica?

Un’opera totale, I diavoli di Loudun, dal romanzo di Aldous Huxley, ambientata in un convento e messa in scena al Verdi di Trieste con ottanta elementi del coro di Cracovia e una quindicina di mime e ballerine dalla grande Margherita Wallmann, una specie di Van Basten della danza, che dopo un infortunio si era dedicata all’insegnamento e alla regia. Per la scena della possessione voleva più verità e così io e Franco Però fummo travestiti da suore e scaraventati sul palco. Fu un grande successo ma mia madre non mi parlò per una settimana.

In carriera, tra teatro e cinema, ti è capitato spesso di vestire abiti religiosi… 

Vero, una specie di contrappasso per un laico e “comunista” come me. L’ultima volta mi avete visto nel film Rapito di Marco Bellocchio, nei panni del rigoroso rettore della Casa dei catecumeni, ma sono stato anche Fra Julian, Don Gino, Papa Pacelli… Sarà il chierichetto che c’è in me che ogni tanto spunta fuori.

Una volta insediato a Milano, ti volle quasi subito Strehler. Com’era il vostro rapporto?

Lui è il mio padre artistico ed è stata una fortuna poter iniziare con lui partecipando a due spettacoli iconici come La storia della bambola abbandonata e La Tempesta. Tra l’altro il maestro, che non amava affatto la drammaturgia italiana contemporanea, mi farà in seguito l’onore di mettere in scena un mio atto unico, Libero. Scintille tra due triestini? Parecchie, Giorgio era facile all’ira e io da giovane avevo un carattere un po’ “bazziloto”, con la battuta sempre pronta. Ma tra liti e riappacificazioni, in un paio di occasioni mi è capitato anche di averlo come attore. Come interprete di alcuni brani del mio libro su Angelo Ceccherini, il Petrolini giuliano, perseguitato dal fascismo, e sempre a Trieste come lettore in scena, insieme a Paolo Rossi e a Moni Ovadia, di un mio lavoro sulla Liberazione presentato alla Risiera di San Sabba, ex campo di concentramento nazista, davanti a 4000 persone.

Dopo la palestra del Piccolo Teatro a quale “scuola” hai attinto di più?

Direi che è stata fondamentale l’esperienza con i miei fratelli del Teatro dell’Elfo Gabriele Salvatores, Elio De Capitani, Ferdinando Bruni e tutti gli attori degli esordi, a partire dalle prime stagioni nella sala di via Menotti, una vera “corrente d’aria” per la vita culturale della nostra città, quando a comporre le musiche degli spettacoli c’erano anche Demetrio Stratos e la PFM.

A Milano hai dato tanto e tanto hai ricevuto, compreso un Ambrogino d’Oro…

Due, in effetti, un Ambrogino per me e un attestato di Civica Benemerenza per l’attività del teatro che dirigo.

Qualche rimpianto?

Tanti, ma uno in particolare: non avere mai lavorato direttamente con Dario Fo, l’altra grande scuola milanese. L’occasione mi si presentò con L’histoire du soldat, ma in quel momento, per vari motivi, non colsi l’opportunità. Un rapporto, quello con lui e Franca Rame, recuperato solo in parte quando toccò a me di mettere in scena Coppia aperta, quasi spalancata.

Autore, attore, regista di spettacoli memorabili, da Mai morti, con Bebo Storti, a Muri - prima e dopo Basaglia, con Giulia Lazzarini, a Chicago Boys, gli ultimi due ripresi in questa stagione: come si combinano questi tre ruoli?

Sono tre cose diverse: il palco ti dà l’immediatezza, il contatto con il pubblico e l’attore ha lo scettro in mano: se è bravo ti salva persino un testo mediocre. La scrittura vive in una dimensione più intima, personale, mentre la regia è il bello della macchina, un po’ come essere il capitano di una nave, che devi saper governare con saggezza e senza troppe intemperanze: per me il teatro è il luogo del rispetto, dove trasmettere soprattutto la passione del mestiere. Non è un’attività intellettuale, è una cosa pubblica, come l’acqua: serve alla sopravvivenza mentale, culturale. E stare in mezzo ai giovani ti aiuta, anche quando ti danno apertamente contro.

Che cosa rappresenta per te Milano?

È la città che mi accolto, dove vivo con i miei affetti: mia moglie Anna, che oggi lavora con me e si occupa di amministrazione, le mie due figlie e cinque nipoti di cui sono orgogliosissimo. Milano continua a piacermi perché qui, in qualunque ambito, c’è più confronto che altrove. È una città che ti fa maturare. Certo, oggi la vivo poco perché fare teatro ti assorbe completamente: è come avere due mogli, cinque amanti, quattro cani, tre gatti, sedici nipoti e in più l’orto, che ogni sera devi annaffiare.

Il Teatro della Cooperativa, in via Hermada, non è gestito da una cooperativa. Come mai?

Si chiama così perché appartiene tuttora alla più grande cooperativa immobiliare indivisa d’Italia, nata su base solidaristica nel 1894 per dare una casa dignitosa alle famiglie operaie della zona. Prima del nostro arrivo era un salone ricreativo: nel 2002 l’abbiamo presa in gestione come associazione culturale, mettendo in scena Nome di battaglia Lia, dedicato alla partigiana Gina Galeotti Bianchi, assassinata a Niguarda dai nazisti alla vigilia della Liberazione. Nei primi anni è stata fondamentale la presenza costante di Bebo Storti, un attore completo che stava vivendo un momento di grande popolarità, anche televisiva. In breve siamo diventati un grosso punto di riferimento per il quartiere, anche se oggi peschiamo buona parte del nostro pubblico dall’indotto (cittadini di Sesto, Monza, Bresso Cormano, che qui non hanno problemi di parcheggio) e da Milano centro. Sala piccola, 189 posti, spesso sold out.

Merito anche di una programmazione varia, che bilancia impegno civile, la cifra della tua produzione, e comicità. In cosa si distingue la stagione 23/24?

Come suggerisce il titolo, Su la testa!, è una stagione che rende un po’ più esplicita la militanza, che non è mai venuta meno. Grazie soprattutto agli amici attori che, dati i tempi, hanno subito risposto all’appello: da Dario Vergassola a Laura Curino, da Andrea Pennacchi ad Ascanio Celestini, da Flavio Oreglio ad Alberto Patrucco, e a Marco Paolini, che ci ha concesso di riallestire il suo Ausmerzen, dedicato ad Aktion T4, lo sterminio dimenticato di malati mentali, disabili e bambini con malformazioni, compiuto in Germania tra il 1939 e il ’41.

L’intervista a Renato Sarti è stata pubblicata su Club Milano 69. Clicca qui per sfogliare il magazine.

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