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PERSONE

Paolo Cognetti

Scrittura, montagna, Milano e... anarchia

Lo scrittore milanese è diventato un nome in tutto il mondo con il romanzo Le otto montagne, da cui è stato tratto un film con protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Oggi Paolo Cognetti vive in una baita in quota e trae ispirazione dalla natura, sognando le avventure di Jack London

 

DI MARZIA NICOLINI

26 May 2023

Rifugiarsi in montagna è una propensione naturale per Paolo Cognetti, amante dell’acqua dei torrenti e degli alberi. Nel suo ultimo libro La felicità del lupo (Einaudi) racconta di un quarantenne che in un paesino in quota rimette insieme i pezzi dopo la fine di una storia d’amore. Nel suo romanzo Le otto montagne (sempre Einaudi), Premio Strega 2017, due amici d’infanzia – un cittadino e un montanaro – si ritrovano adulti a costruire una baita isolata davanti a un lago alpino, condividendo una dimensione intima e assoluta. Oggi il libro, tradotto in oltre quaranta paesi, vive in un film con protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Quanto a Cognetti, folta barba biondo rame e sguardo intenso, è nato a Milano nel 1978 e ha vissuto tra le zone di Fiera e San Siro. Le sue radici, però, ha scelto di metterle ben più in alto, in un piccolo borgo della Val d’Aosta. Citando il suo bestseller, “Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa”.

Dallo studio della matematica si è spostato al cinema documentario, approdando alla scrittura. Da bambino aveva un “mestiere dei sogni”?

Quando ero piccolo volevo fare il falegname. Il legno mi è sempre piaciuto, e anche il lavoro manuale. L’ho ripreso andando a vivere in montagna, dove ho tutti i miei attrezzi e sono circondato dai boschi: il legno è negli alberi che ho davanti alla finestra, è il materiale di cui è fatta la mia casa, è il fuoco che brucia nella stufa. Per un certo periodo dell’adolescenza ho sognato di fare il vagabondo buddista (erano gli anni in cui leggevo Hesse e Kerouac), facendo preoccupare parecchio mia madre. È stato verso i sedici, diciassette anni che ho pensato che sarebbe stato bello diventare uno scrittore.

Chi fa documentari e vive di scrittura ha un occhio allenatissimo a cogliere ogni dettaglio di fatti e persone. Cosa cattura di più la sua attenzione e quali sono le fonti di ispirazioni per i suoi lavori?

Ha ragione, mi piace molto osservare. Una volta soprattutto le ragazze e le donne, su cui ho scritto tante storie. A quei tempi le persone mi affascinavano di più, adesso sono un po’ stanco dell’essere umano. I miei occhi cercano più spesso il cielo, le nuvole, gli alberi, i torrenti, la neve. Altra fonte di ispirazione, almeno in questo momento, è la musica. Vorrei riuscire a scrivere un racconto come una bella canzone.

La solitudine dello scrittore è una dimensione familiare? Ha bisogno di stare solo per scrivere e concentrarsi?

No, posso concentrarmi anche in mezzo alla gente. Anzi spesso mi capita di andare a scrivere al bar, e il treno è un altro posto dove lavoro bene. Certo, c’è più distrazione che stando da solo in una stanza, ma è una distrazione che può giovare alla scrittura. La solitudine è una condizione che conosco: quanto tempo ho passato da solo... Se una persona normale (sempre che esista) si alza la mattina e ha davanti una giornata da passare con gli altri, io mi alzo e mi preparo a star da solo. Spesso non vedo nessuno fino alla sera. Ci sono abituato, ma a volte è un po’ dura. La compagnia di te stesso può diventare insopportabile, e più passa il tempo più apprezzo quella degli amici.

Come si è evoluto e affinato il suo metodo di lavoro da scrittore?

Scrivo storie da 25 anni, ormai. Una volta scrivevo molto e buttavo via molto, direi che andavo per tentativi. Adesso ho la mano più sicura e ogni tanto, anche se raramente, succede che scriva una pagina che poi non tocco più, e finisce in un libro così come l’ho scritta la prima volta. Questo sarebbe stato impensabile all’inizio. Però non sento affatto di aver trovato un metodo: sogno un giorno di raggiungere la maestria di Hokusai, il “dipingere il monte Fuji con una sola pennellata”. A quel punto avrò finito, credo.

Che effetto le ha fatto vedere per la prima volta Le otto montagne al cinema?

È un film che ho visto nascere, ho partecipato a tutte le fasi – dalla scrittura al montaggio – e l’intero processo ha richiesto quasi tre anni di lavoro. Per cui sapevo cosa aspettarmi, ma la prima volta che ho fatto da spettatore è stata devastante lo stesso. Mi ricordo che era tarda notte, ero in montagna con Federica, la mia compagna, l’abbiamo visto insieme e poi non siamo riusciti a dormire. L’abbiamo rivisto per tre o quattro giorni di fila perché avevamo questo bisogno di notare tutto, di ricordare tutto, sapete come succede con i film preferiti che potremmo tranquillamente recitare a memoria? Ecco, dopo una settimana lo recitavamo tra di noi così. Personalmente, provo un’enorme gratitudine. Il libro mi rende orgoglioso perché l’ho fatto io, il film invece è un grandissimo regalo che mi ha fatto la vita.

È un esperto di letteratura americana. Quali sono i romanzi o i racconti di questo filone geografico ai quali è più legato, e perché?

Ci sono scrittori a cui voglio bene come fossero i miei nonni, ho perfino le loro foto in casa. Le ho stampate, incorniciate e stanno lì a guardarmi dalla mia biblioteca. Provo questo tipo di affetto per Raymond Carver, Grace Paley, Alice Munro, e poi Jack London, Ernest Hemingway, Charles Bukowski, Jack Kerouac. Della letteratura americana adoro il senso di avventura. Era (adesso non più) una letteratura che nasceva dalla vita, dalla strada, dai boschi, non dalle aule e dai libri. E c’era un amore per i grandi spazi, per il viaggio, la frontiera, i fiumi e gli oceani, che sento mio. Vorrei essere uno scrittore così. La mia montagna non è l’Altipiano di Rigoni Stern, è l’Alaska di Jack London.

Come l’ha cambiata, anno dopo anno, vivere in montagna? È diventato l’uomo selvatico vestito di foglie e rami, il Bruno de Le otto montagne?

No, sono rimasto sempre lo stesso. Una volta ero più duro, questo sì. Sono diventato più fragile. Ho imparato tante cose sulla montagna e qualcuna su di me, in particolare sulle mie debolezze. Quanto alle foglie e ai rami, tenga presente che a un certo punto ho scritto un best-seller da un milione di copie, che mi ha dato moltissimo, ma mi ha anche stravolto la vita. Alle persone piace immaginarmi lì da solo nella baita, non negli alberghi di Tokyo, Chicago, Oslo, Lima, Montreal. Le città che ho frequentato di più in questi ultimi anni sono state Amsterdam e Parigi. Insieme a Estoul, che è un villaggio a 1800 metri di quota con una ventina di abitanti, dove ultimamente arrivano giornalisti da mezzo mondo ed è stato girato un film internazionale. È anche divertente, dai. Ho agitato un po’ le acque lassù.

Pensare di vivere di scrittura sembra talvolta un sogno irraggiungibile. Come siamo messi in Italia?

Siamo una ventina di persone, oggi in Italia, a vivere dei libri che scriviamo. Un po’ più degli astronauti, molti meno dei calciatori. Per cui, se volete vivere dei vostri libri, sappiate che è più facile giocare nel Milan o nella Juve. In realtà, gli scrittori campano collaborando coi giornali, o insegnando, o traducendo, o facendo tutt’altro mestiere. Il mio consiglio è sempre quello di leggere moltissimo: leggere, per uno scrittore, è come mangiare e bere. E scrivere tutti i giorni. Basta anche un’ora, ma ogni giorno per anni. Scrivere deve diventare un’abitudine.

Che cosa significa per lei essere anarchico? Quando ha sposato questa scuola di pensiero?

Quando ho incontrato Dino, che era un oste davanti a casa mia. All’epoca avevo trent’anni. Lui è stato il mio maestro e mi ha trasmesso la fiamma dell’anarchia, ed è lui che mi ha regalato la lavallière (la cravatta degli anarchici) con cui sono andato a ritirare il premio Strega nel 2017. Che cosa posso dire in due parole? L’anarchia è un’idea bellissima di convivenza tra gli esseri umani. Vorremmo vivere tra amici, senza padroni, in libertà e nel rispetto dell’altro. Quando mi chiedono: ma come pensi che sia possibile convivere senza regole? Rispondo: come nell’amore.

Le manca mai qualcosa della città, in particolare di Milano, dov’è nato e cresciuto?

Ho sempre vissuto con poco, anche a Milano o a New York. Solo che in città, senza soldi, sei povero. Non ti resta che andare a zonzo e guardare le vetrine, perché in città è tutto a pagamento. In montagna puoi passare una bellissima giornata dimenticandoti a casa il portafoglio. Per un anarchico questo è molto bello: nei boschi sei un re. Della città mi manca, certe volte, quello che l’uomo è riuscito a fare di bello: l’arte, la musica, i libri, le idee. E certe volte è in montagna che mi manca l’aria, per cui scendo in città a prendere un bel respiro.

Che emozioni prova in quanto scrittore di successo?

Per alcuni anni, tra i 17 e i 25, il grande sogno era riuscire a scrivere e pubblicare un libro. Quando è successo è stato bellissimo, non lo dimenticherò mai. Però poi ho dovuto fare i conti con la realtà e mi sono accorto che i libri che scrivevo (sette prima delle Otto montagne) non mi davano da vivere: fino ai 40 anni ho fatto il barista, il cuoco, il montatore video, il documentarista, l’insegnante di scrittura, il traduttore e non ricordo più che altro, ah sì ho anche dato ripetizioni di matematica. Tutto per potermi permettere quell’ora al giorno di cui parlavamo, l’ora in cui facevo la cosa più importante per me, ossia scrivere le mie storie. E alla fine, dopo 20 anni, è diventato il mio lavoro. È questo il vero successo: faccio quello che ho sempre desiderato, e la mia arte mi dà da vivere. Provo un profondo senso di realizzazione e altrettanta gratitudine.

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Paolo Cognetti 
Le otto montagne 
Einaudi

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