Il sodalizio con Gino Vignali è un punto di riferimento nel panorama della produzione culturale degli ultimi decenni: dalla satira formato Zelig, in teatro e in tv, all’editoria specializzata, al fenomeno Smemoranda. Ma c’è spazio anche per le avventure soliste. L’intervista a Michele Mozzati.
DI PAOLO CRESPI
04 October 2022
C’è un’alternanza di ruoli che è data dai caratteri. Io sono molto più estroverso, casinista (e incasinato). Gino è molto più cauto e “ingegnere”, caratteristica fondamentale per dare solidità ai progetti. Lui è uno che sale all’ultimo sul treno, ma poi ti migliora il viaggio. Con metafora calcistica, per fare diventare grande Lukaku ci vuole Lautaro. In sintesi, se Gino non ci fosse io sarei molto più fragile, e se io non ci fossi, lui forse sarebbe un po’ più noioso.
La nostra è un’attività piuttosto eclettica, anche se ruota intorno al fulcro dell’autorialità, con un forte ancoraggio nel mondo dell’intrattenimento, più o meno intelligente. Credo sia un lascito della cultura degli anni ’70. In fondo siamo stata l’ultima generazione a poter scegliere che fare. Oggi anche quelli più in gamba incontrano molte difficoltà. Noi abbiamo potuto diversificare perché c’era molto spazio. In tutto quello che ci piaceva provavamo a intrufolarci. Certo, bisogna avere qualche numero. E anche l’essere in due ti porta ad abbracciare più ambiti con facilità. A uno veniva l’idea di Radio popolare, all’altro quella delle Formiche, intese come antologie di battute. Uno seguiva di più il teatro, l’altro la tv o il cinema. Insieme siamo riusciti a fare cose molto pop e altre più di nicchia, cercando di essere il meno beceri possibile.
Tutt’altro. La vita lavorativa a due non è molto diversa da quella di un matrimonio o di una convivenza. All’inizio c’è una fase di innamoramento, per cui tutto ti sembra meraviglioso. Poi subentrano la routine, la convenienza reciproca, ma anche il piacere di variare un po’. Chi fa da mangiare oggi? Chi butta giù il pezzo per primo? Nelle coppie, a un certo punto, qualcuno comincia a mangiare per conto suo, all’ora che preferisce. Funziona anche per i pezzi: si comincia a scrivere sfasati e se c’è molto lavoro si firma in due ma a scrivere è stato uno solo.
Più si va avanti, più emergono le differenze. E con l’età che avanza arriva anche la fase in cui ci si sopporta di meno. Ma a quel punto, obiettivamente… che ci frega di dividerci? Tutt’al più si trova un altro equilibrio. Nel caso mio e di Gino siamo arrivati a separarci su alcune cose. In particolare nella scrittura, dopo decine di libri ideati e pubblicati insieme.
Piuttosto bene. Io avevo un sogno. Che gli editori italiani si mettessero a credere nei racconti, uscendo da una certa visione provinciale per cui sembra che contino solo i romanzi. Io ne avevo alcuni nel cassetto ispirati ai quadri di Edward Hopper. Dopo un esperimento di autopubblicazione ho trovato in Skira, che possedeva i diritti di riproduzione, l’interlocutore giusto. Poi ho provato a immaginarmi una storia ottocentesca che partisse da Milano e arrivasse a San Francisco, passando per Genova e New York: quattro città che amo e un periodo storico controverso, da un lato un po’ palloso, dall’altro estremamente romantico. Ed è nato Quel blu di Genova (La Nave di Teseo), che allude all’epopea dei blue jeans. Adesso ho un libro in preparazione che parla del mio luogo dell’anima che è Stromboli. E in testa ne ho anche un altro, che attinge addirittura alla mia infanzia, per cui richiederà un supplemento di riflessione. Nel frattempo Gino ha seguito il suo istinto di scrivere gialli, ora è al quarto o quinto romanzo. Entrambi siamo gelosi di questa nostra parte solista, e anche un po’ competitivi. Ne parliamo poco tra di noi, mentre per le cose che vanno fatte insieme procediamo come sempre.
Si riparte ora dopo un periodo di fermo che ha coinciso con un’ubriacatura da talent, seguita dalle restrizioni dovute alla pandemia. In effetti siamo in pista già dallo scorso anno, ma reiventando la trasmissione come un evento: l’omaggio al comico in tre, massimo quattro puntate. Saranno a novembre, con le registrazioni che partono il 7 all’Arcimboldi (2.600 posti già sold out) e la messa in onda entro fine mese, sempre nella prospettiva di portare la tv fuori dagli studi e riprendere lo spettacolo dal vivo in una sala teatrale. Dove, certo, ci sono le telecamere, ma nessuno si sogna mai di guardare in macchina. E dove il pubblico partecipa in modo emotivamente credibile alla serata.
No, per ogni puntata facciamo due registrazioni in due serate consecutive, poi si tiene il meglio di entrambe, di solito un po’ più della seconda, in cui si consolidano le improvvisazioni della prima. Naturalmente il marchio Zelig funziona in più campi, e il merito è in particolare di Giancarlo Bozzo, che si occupa dello scounting e della programmazione quotidiana della storica sala di viale Monza.
Roba di cui vergognarsi non ne abbiamo prodotta. Forse qualche trasmissione meno bella, ai nostri esordi su emittenti locali che però ci hanno permesso di accumulare esperienza. O qualche spettacolo meno riuscito, come Eldorado, preparato con tanto entusiasmo e divertimento da parte del nostro gruppo di lavoro a Stromboli, cui non è corrisposto, a ripensarci oggi, un risultato adeguato sulla scena, a differenza del precedente Comediants, straordinario sotto tutti i punti di vista.
Nello spettacolo il maestro Jannacci, determinante nella sua follia. In realtà eravamo molto amici. È stato fantastico essere riusciti a conoscere e frequentare nella vita quello che per noi era stato un mito solo qualche anno prima. Come anche fu uno choc poter incontrare e trattare alla pari con personaggi come Roberto Benigni o Woody Allen. Nell’editoria direi senz’altro la figura di Oreste Del Buono, un intellettuale che ci ha insegnato tantissimo, sia nei gusti che nell’approccio ai contenuti: in lui “alto” e “basso” convivevano tranquillamente. Basti dire che il suo punto di riferimento era il fumetto, da molti suoi colleghi vissuto quasi con schifo. Oltre naturalmente ai gialli, a torto considerati letteratura di serie B. Nella mia formazione personale ha avuto grande importanza Rosellina Archinto, incontrata alla Emme edizioni quando muovevo i primi passi come editor: lei mi ha preparato ad avere un rapporto a 360 gradi con i libri.
Direi senz’altro Antonio Ricci e Beppe Recchia nella tv, ai tempi del Drive in. Claudio Bisio con cui siamo cresciuti insieme in teatro e che poi abbiamo portato e ritrovato in tv: un elemento fondamentale nel successo di Zelig. E Paolo Rossi, un estremista vero, ma anche un artista di eccezionale talento e sensibilità. Poi naturalmente Gabriele Salvatores, con cui ci ripromettiamo sempre di tornare a fare qualcosa insieme. E sul fronte femminile Vanessa (Incontrada) e Michelle (Hunziker), persone di una solidità artistica notevole, che sanno ridere al momento giusto, con quell’intelligenza che alleggerisce tutto…
Gino Strada, un autentico rivoluzionario al nostro fianco. Ha illuminato l’Italia intera con il suo esempio, contribuendo a instillare dubbi e a rimettere l’etica al centro della nostra esistenza. Oggi ci manca enormemente.
In effetti non sono mai stato un militante fatto e finito, quanto piuttosto un serio simpatizzante. Ai tempi avevo il mio ruolo nella “commissione artistica” del Movimento studentesco, spesso non compreso dagli operai che ci tiravano i panini perché volevano sentire Claudio Villa al posto delle canzoni di lotta. Ho sempre cercato di essere il più progressista possibile rispetto alle chance che c’erano nel Paese. Anche oggi faccio fatica a non spendermi in qualche modo.
Trovo che Milano sia un palcoscenico strepitoso. Non avrei mai sperato di vedere la mia città così come è oggi, pur con tutti i suoi problemi. È bastato poco. Ci voleva un progetto di ampio respiro nell’unica realtà italiana che ha alcune delle caratteristiche delle grandi metropoli internazionali. Come la capacità di acquisire genti e culture differenti e farle proprie. Firenze, Roma o Venezia hanno (avevano, ora ce la giochiamo) cento volte i turisti che raggiungono Milano, con la differenza che da noi entrano in sintonia, mentre altrove il turista passa ma è come se non ci fosse, non c’è scambio. Certo, c’è il problema delle periferie, lontane dall’essere veramente vivibili. Mancano la gioia, condizione essenziale per creare, costruire, e segnali di vita che vadano oltre il minimo sindacale.
Spero che tutto il complesso oggi in disuso delle ferrovie che attraversavano o affiancavano Milano diventi, come da progetto, una cosa simile alla High Line di New York: una striscia verde, un parco che corre dentro la città… sarebbe una figata pazzesca.
In apertura, Michele Mozzati. Foto di Enrico Lunardi.