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PERSONE

Massimo Siragusa

Il contatto “discreto” con la realtà

Catanese, romano d’adozione con diverse incursioni sul territorio milanese, Massimo Siragusa utilizza consapevolmente il mezzo fotografico come linguaggio umano. I suoi scatti, rigorosi e dettagliati, aprono a riflessioni che vanno al di là degli spazi   

DI MARCO TORCASIO

12 February 2024

Lo scatto che fa da copertina al numero 69 di Club Milano dice molto del tuo stile fotografico. Come lo descriveresti?

La foto ritrae il laboratorio di scenografia del Teatro alla Scala, cuore pulsante di ogni produzione scaligera. Appartiene a un lungo lavoro condotto su Milano con cui ho messo in relazione l’architettura e lo spazio per raccontare il dentro e il fuori della città. Lo scatto fa parte in realtà di una serie più ampia pubblicata nel volume Teatro d’Italia (Contrasto Edizioni) che, osservata nel suo insieme, delinea un racconto spettacolare, un viaggio sul territorio da nord a sud fatto di oggetti e soggetti interessanti per la loro bellezza.  

Cosa ha catturato il tuo interesse quando hai diretto il tuo obiettivo su Milano?

Ho fotografato luoghi simbolici della città come l’Università Bocconi e lo stadio San Siro, ma la mia attenzione è in continua evoluzione. Per molti anni ho lavorato sull’architettura e sul paesaggio urbano. Quello milanese è un palcoscenico su cui accadono cose, nascono relazioni tra le persone e il territorio: lo influenzano e al contempo ne sono influenzate. A me interessa scoprire come si costruiscono queste relazioni tra luoghi e individui. Da qualche anno mi sto concentrando molto sulla natura, attraverso progetti – sia personali, sia con committente – che pongono al centro il tema della trasformazione del clima e dell’ambiente.

In buona parte della tua produzione raramente la figura umana è il soggetto principale. Semmai è presente concettualmente. Perché?

Il mio lavoro è conosciuto per essere frutto di visioni corali, che poggiano le loro basi sull’importanza della prospettiva e dell’ampiezza delle dimensioni, siano esse esterne o interne, in cui ogni singolo oggetto e soggetto diventa elemento costitutivo del luogo. Mi interessano molto i segni del vissuto che caratterizzano un’area. Gli interventi dei writer, per fare un esempio, che oggi vengono istituzionalizzati.

Quali caratteristiche contraddistinguono la tua cifra di fotografo?

Non ho mai sposato un unico stile. Credo che la fotografia sia talmente legata alle circostanze in cui prende vita, che debba tener conto di molteplici variabili, dal mio personale modo di sentire all’evoluzione dell’epoca in cui ci si trova. Ho mantenuto a lungo il desiderio di un tratto delicato, con la predominanza di colori pastello, per guardare alla realtà in punta di piedi. Ma via via ho trasformato questo sentimento avvicinandomi di più ai soggetti. Oggi mi sento più dentro alle situazioni e voglio affermare con maggiore forza la mia presenza.

Quale scintilla ha fatto scattare la necessità di costruirsi una carriera nella fotografia?  

Una delle ragioni più forti, in tutta onestà, è stata l’impellenza di fare qualcosa che fosse il più distante possibile da quanto seguito nella mia famiglia. Alla fotografia mi sono avvicinato, per passione, al liceo. Poi questo mio interesse è maturato sempre di più all’università, dove ho iniziato veramente a scattare.

Ci sono stai momenti che ti hanno segnato e gratificato più di altri?  

L’incontro con Ferdinando Scianna ha determinato il mio cammino: mi ha fortemente incoraggiato a intraprendere la professione da fotografo e mi ha persuaso a rompere gli indugi. Un altro incontro importante è stato quello con Roberto Koch, fondatore di Contrasto. Entrando in agenzia ho scoperto un nuovo modo di concepire il lavoro, imparando lezioni straordinarie sull’autorialità legata al mestiere. In termini di soddisfazione personale sono fiero dei quattro World Press Photo vinti. Ognuno di essi rappresenta un momento importante, ma in tutta sincerità non li ho mai veramente cercati, sono “semplicemente” arrivati.

Sei anche insegnante all’Istituto Europeo di Design di Roma. Cosa cerchi di trasmettere alle giovani menti che hanno intenzione di percorrere questo sentiero?

L’insegnamento è centrale nella vita. Insegno certamente per passione e apprendo io stesso dagli studenti: mi interessa molto il confronto e il dialogo tra generazioni. Ai miei ragazzi tento di far capire che in fondo la fotografia non differisce poi tanto dalla letteratura, certo lo strumento cambia, ma la necessità di raccontare storie è la stessa.

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Il laboratorio di scenografia del Teatro alla Scala di Milano. Foto di Massimo Siragusa

L’intervista a Massimo Siragusa è stata pubblicata su Club Milano 69. Clicca qui per sfogliare il magazine.

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