Le fotografie di Luca Rotondo colpiscono per forza e precisione. Autore della copertina di Club Milano 62, indaga l’incontro tra l’uomo e lo spazio con occhio analitico.
DI MARCO TORCASIO
15 March 2022
Il mio approccio alla realtà rigoroso, a tratti geometrico, trova applicazione nella fotografia architetturale. Ma, oltre a raccontare lo spazio, dò voce anche a un altro lato della mia anima che si esprime attraverso la fotografia documentaria.
Gli spazi non sono mai fine a se stessi, ma hanno sempre uno scopo. La presenza dell’essere umano e il suo coinvolgimento nel territorio sono elementi fondamentali per me. Tra i miei lavori ce n’è stato infatti uno di documentazione del quartiere Santa Giulia, nell’area della Montedison e delle acciaierie Redaelli. Il mio scopo non è stato raccontare il progetto urbanistico redatto dall’archistar Norman Foster, ma documentare l’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, nonché la corruzione che ha bloccato per anni la costruzione del quartiere con conseguente sequestro dei terreni da parte dell’autorità giudiziaria. Aspetti che fanno riflettere in chiave sociologica sul concetto di fruizione di un luogo.
È nata da una chiamata alle armi della Galleria Belvedere che ha chiesto a cinque fotografi di rap- presentare la zona delle 5 Vie. Ragionando sull’idea di quartiere e su come questo viene popolato, vissuto e conosciuto da chi lo abita ho pensato che la figura del custode – che tutto sa, tutto conosce e tutto vede – potesse essere funzionale al racconto. Ho cercato quindi di ricondurre il discorso sull’essere umano: questi personaggi, spesso ignorati, detengono una conoscenza unica del quartiere in cui lavorano e, a volte, vivono.
L’approccio alle immagini è stato anche in quel caso di stampo urbanistico, ma con esse ho raccontato l’incontro tra l’uomo e la città, fatto di umanità e indifferenza. Il centro di Milano vive una doppia vita. Quella diurna degli uffici, del commercio, dello shopping compulsivo, teatro di una frequentazione di passaggio. E quella notturna, in cui il centro sembra non avere più nessuna funzione. Gli uffici chiudono e, a latere di questa tacita ricchezza, rimane ciò che il giorno ha mascherato, i clochard ad esempio. La serie parla di edifici e di cemento, ma soprattutto di uomini.
Milano ha grandi aspirazioni e tanta voglia di crescere. Tuttavia cresce soltanto un certo tipo di città, quella commerciale e delle aziende. Costruiamo i grattacieli con un piano urbanistico che finisce per dimenticare il cittadino. Prendiamo l’esempio di Gae Aulenti, con il grande progetto del Parco Biblioteca degli Alberi: è stato messo a nord di un complesso di edifici che per metà dell’anno gli sottrae luce. Impossibile non interrogarsi su quanta attenzione sia stata data davvero ai bisogni del cittadino.
Sto affrontando la problematica della vivibilità reale dei luoghi a partire da un’altra epoca storica, quella dell’impero Ligresti. La costruzione di quartieri con la propria ragione d’essere in se stessi si è rivelata un’utopia urbanistica a tutti gli effetti. L’idea di poter trovare tutto nella breve distanza di una camminata – dal ciabattino al prestinaio – si è scontrata infatti con i grandi centri commerciali che hanno fagocitato i piccoli esercizi e trasformato intere aree urbane in meri contenitori di appartamenti.
Scattare una firma così importante dell’architettura, non soltanto milanese, è stato responsabilizzante e stimolante al contempo. Ho lavorato confrontandomi con Salvatore Licitra, nipote di Gio Ponti e curatore dell’archivio che ne custodisce opere e memoria.
È frutto della mia partecipazione a Open House Milano, un progetto che consente di conoscere, attraverso visite guidate gratuite, edifici pubblici e privati dal notevole valore architettonico, normalmente non accessibili. L’immagine mette in evidenza la relazione spaziale e umana che intercorre tra questi piccoli drappelli di visitatori e l’architettura maestosa del Palazzo della Regione.