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PERSONE

Filippo Romano

Da fotografo a narratore di luoghi

La fotografia per Filippo Romano è al contempo strumento d’indagine empirica e di osservazione metafisica. Con il suo obiettivo cattura ciò che gli accade attorno e ferma nel tempo immagini che diventano narrazione artistica

DI MARCO TORCASIO

26 September 2023

Come ti sei avvicinato alla fotografia?

Ho iniziato a usare la macchina fotografica da adolescente per emulare i miei compagni che già ne possedevano una e usavano per fotografare viaggi, festicciole, cortei. A sedici anni ho avuto la mia, ma non immaginavo che mi sarebbe rimasta addosso così a lungo. Dopo il liceo classico ho studiato all’I.S.I.A. di Urbino, da lì a poco ho comprese quanto scattare fosse importante. Ho iniziato a collaborare con le riviste di architettura e a specializzarmi in quel campo, mantenendo una finestra aperta sulla fotografia documentaria legata al paesaggio, quella americana ad esempio, che ho sempre ammirato. Sono andato a studiare negli Stati Uniti rimanendovi per cinque anni, dedicandomi alla mia autorialità e lavorando per l’agenzia Grazia Neri, che mi ha portato a discostarmi dall’architettura tout court, senza mai abbandonarla veramente.  

Tra i tuoi lavori più interessanti quello su Nairobi colpisce con la sua intensità.

È un lavoro che deriva da quanto già fatto qualche anno addietro con il progetto Off China, sullo sviluppo urbano delle città cinesi. Quando l’economia si sposta in maniera massiccia in una data area geografica del mondo il primo cambiamento riscontrabile è infatti proprio la trasformazione urbana. Il lavoro fotografico su Nairobi è nato grazie alla collaborazione con una piccola ONG e contiste in un racconto del ghetto di Mathare che via via diventa ampio e complesso e abbraccia tutta la città, in riferimento al modello di cambiamento urbano che l’Africa sta seguendo.

Dal 2007 porti avanti un progetto in Calabria che hai mostrato alla Biennale di Venezia per ben due volte. In cosa consiste?

Riguarda la Statale Ionica 106, una strada che percorrevo da bambino con mio padre. Nei primi anni Trenta mio nonno – che era un magistrato – fu mandato a Petilia Policastro, ai tempi luogo di brigantaggio, prima ancora che la Ndrangheta diventasse fenomeno riconosciuto. Lì conobbe mia nonna e andò incontro a frequenti spostamenti. Tant’è che mio padre nacque a Reggio Calabria. Nel 2007 decisi di far visita a mio cugino, commissario prefettizio a Platì. Era l’anno della strage di San Luca e io fotografai i funerali. Dopo quell’esperienza così forte a livello umano ho sentito l’esigenza di tornare, viaggiando attraverso quei luoghi. È nato dunque un racconto on the road, addolorato ma ironico, del paesaggio. Il sublime sfregiato.

Quando sei a Milano, città in cui sei cresciuto e in cui vivi, cosa cattura il tuo sguardo?

Quanto scattato a Milano finora è frutto di committenze oculate. Per Fulvio Irace ho realizzato foto dell’architettura cittadina contemporanea con uno sguardo urbano, non apertamente critico ma di sicuro non celebrativo. Ho lavorato per il festival delle periferie che mi ha consentito di attraversare e fotografare in modo capillare la città. Ho immortalato anche via Padova e una serie che amo molto riguarda gli interni dei ristoranti etnici. Ma c’è tanto altro.

Che cosa significa fotografare Milano?

Voglio riassume il concetto con una citazione di Montale, “Milano è la città del pane quotidiano”. Una visione molto pragmatica, collegata all’idea che in fondo la poesia del vivere a Milano esista, ma sia molto complesso ritrovarla.

Lo scatto prescelto per la copertina di Club Milano 68 riguarda lo stadio San Siro. È un luogo per te significativo?

La foto è stata scattata qualche anno fa, quando ancora non si parlava seriamente di cosa ne sarebbe stato dello stadio. È un luogo a cui tengo molto ma non è la fede calcistica la ragione del mio attaccamento peculiare. Ritengo che questo monolite, con il suo aspetto quasi metafisico, sia un luogo unico e debba essere considerato al pari della Scala, un importante teatro della città da preservare.

Altri luoghi ti colpiscono particolarmente?

Amo molto, pur non avendolo mai fotografato in maniera esaustiva, il cavalcavia Bussa. Un piano fallito di urbanizzazione della città, che collega l’Isola alla zona di via Sarpi. Un luogo incompiuto che mi ricorda un’altra città in cui ho vissuto, la Berlino del ’96, piena di vuoti indefiniti. Mi incuriosisce anche Bicocca, un quartiere assurdo e fallimentare per certi versi ma ricco di fascino. Snobbato dal resto della città e dunque doppiamente interessante. Mi piace molto anche NoLo, piazza Morbegno – in cui passa il tram – mi ricorda la Lisbona di qualche tempo fa. Io sono cresciuto in via Santa Marta, quando ancora le prostitute stavano agli angoli della strada e una certa immigrazione dura dal sud Italia popolava case non ristrutturate e senza riscaldamento. Poi negli anni Ottanta tutto è cambiato, ma è una storia che nessuno vuole raccontare. Milano mi piace perché è una città anonima, ma nel senso bello del termine: non vincola a un’unica lettura.

L’intervista a Filippo Romano è stata pubblicata su Club Milano 68. Clicca qui per sfogliare il magazine.

 

In apertura, Filippo Romano ritratto da Francesca Romano.

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