Ha debuttato a Milano alla Galleria Carla Sozzani Altered Images, progetto fotografico realizzato nel 1981 da Christopher Makos e che vede Andy Warhol interpretare la mutevolezza dell'identità umana. Accanto a questi otto scatti, una cinquantina di fotografie che ripercorrono la New York degli anni Settanta e Ottanta, in cui Makos si trasferì affascinato soprattutto dall'emergere della scena punk.
DI ALESSIA DELISI
26 July 2014
Credo che oggi come allora New York sia una città assolutamente unica nel suo genere: ha un’energia straordinaria perché verticale, perché nel suo tendere verso l’alto sembra costantemente manifestare un desiderio, una volontà. Questo la rende un’incredibile fonte di ispirazione per tutte le manifestazioni artistiche. Non avendo una struttura classista poi, è democratica: solo così può riuscire a rinnovarsi di continuo.
Andy Warhol era, come tutti gli altri personaggi famosi che hai citato, semplicemente una delle persone con le quali trascorrevo le mie giornate. Era un grande amico con cui lavoravo e con cui condividevo tante cose, anzitutto il fatto di parlare la stessa lingua. Diciamo che io gli ho insegnato a far foto, mentre lui mi ha mostrato come far soldi nel mondo dell’arte (ride, NdR)!
Man Ray mi ha insegnato a cogliere l’attimo, perché, se ci pensi, l’attimo è tutto ciò di cui disponiamo. Ho anche imparato a fidarmi del mio istinto. Anzi, non solo a fidarmene, a obbedirgli.
L’identità ha a che fare col modo in cui ci mostriamo al mondo. Se ci fai caso, non è vestendosi da donna che Warhol impersona la femminilità. Ricordo che Halston, il celebre fashion designer, ci aveva offerto un abito, ma noi lo rifiutammo: non volevamo travestirci, ma mostrare quanto facile fosse cambiare identità. Dopodiché penso che tutti noi usiamo dei travestimenti: c’è per esempio il “travestimento da businessman”, ovvero il completo.
Non credo che appartenga ad alcuna generazione nello specifico. La gente si guarda allo specchio da migliaia di anni: la differenza è che oggi trattenere un’immagine è più facile che un tempo, più facile per esempio che fare un ritratto di quello che nello specchio vedi riflesso. Selfie poi è un termine che fa capire come le persone hanno voglia di raccontarsi in questa nostra epoca storica: ovvero vedere solo se stesse e possedere esclusivamente la propria immagine, molto semplicemente. Non c’è alcuna riflessione ed è questo che tutti vogliono oggi: non pensare a niente.
Mi piacciono tutte quelle persone che scattano immagini che sono belle perché “smart”: intelligenti e al tempo stesso con un linguaggio personale. Paul Solberg è uno di questi.
Mi piace fotografare individui, chiunque essi siano: persone che comunicano tra di loro e che esercitano un’influenza reciproca, ma soprattutto persone che hanno un loro stile. Non ha niente a che vedere con la celebrità.
In realtà non sono io ad avere un rapporto con il successo: è lui che ne ha uno con me. Io amo il mio lavoro, dopodiché se celebrità e successo arrivano, credo sia solo il risultato dell’amore che nutro per quello che faccio.
Intervista pubblicata su Club Milano 21, luglio – agosto 2014. Clicca qui per scaricare il magazine.