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ARTE

Deodato Salafia

Collezionismo tra arte e tecnologia

La mostra dello street artist Obey, molto noto su scala internazionale, è stato uno dei progetti più importanti mai realizzati. Il fondatore di Deodato Arte, racconta la sua avventura professionale iniziata prima come appassionato e solo dopo come gallerista

DI ENRICO BENINCASA

04 February 2025

Che esperienza è stata la mostra Obey: the Art of Shepard Fairey, realizzata insieme a Fabbrica del Vapore e Comune di Milano?

È stato un traguardo raggiunto. Quando ho iniziato la mia avventura di gallerista, realizzare un evento del genere con un artista come Shepard era un miraggio. Mai in quel momento avrei pensato di poter realizzare quella che lui stesso ha definito “la seconda mostra più grossa che abbia mai fatto dopo quella in Corea”. È stato bello averlo qui, conoscerlo e realizzare anche un murales di oltre trenta metri in città. Abbiamo avuto il coraggio di farla in un anno particolare, con l’estate in mezzo, ma abbiamo raggiunto più di quanto ci eravamo prefissati e siamo contenti della visibilità e dei contatti che abbiamo creato grazie a questo evento.

Dunque una mostra che “bisognava fare”…

L’arte urbana è oggi a un punto di storicizzazione. Io e Shepard Fairey siamo dello stesso anno, il 1970, e non sono pochi gli artisti di questo ambito nella nostra fascia d’età. È arrivato il momento di fare un po’ il punto e mostre come queste lo consentono. Ho sempre ammirato Obey e le sue opere, ma sono riuscito a rappresentarlo solo quando Deodato Arte ha acquisito la maggioranza della Wunderkammern Gallery, nel 2020.

Come sono i rapporti tra i galleristi e artisti di questa levatura? Perché un artista sceglie un gallerista?

Il fattore umano è sempre al primo posto e vale per tutti, da Shepard e Lachapelle. Sono importanti anche il modo con cui ti presenti sul mercato e la solidità della struttura. Gli artisti vogliono essere rappresentati degnamente e non basta pagargli le opere, perché tutti le vogliono. Deve esserci di più, un’intesa sul lato umano da cui poi parte tutto.

Milano è diversa come “piazza dell’arte” rispetto al resto dell’Italia?

È totalmente differente. È una città europea, le persone si sentono a loro agio a fare questo tipo di acquisti, che siano della zona o meno. Qui c’è quel feeling del “non farsi sfuggire l’occasione”, negli altri posti c’è più tendenza a pensarci. È un discorso che riguarda il cliente che compra a Milano, indipendentemente da dove proviene.

Il tuo background da informatico ha profondamente influenzato l’approccio della tua azienda a questo mondo. Possiamo considerare Deodato Arte anche una tech company?

Sì, non a caso siamo considerati dalla Camera di Commercio una PMI Innovativa. Al nostro interno, poi, abbiamo una startup tech, e c’è tanta tecnologia nei processi e anche nei prodotti. Inoltre abbiamo tanti progetti, alcuni dei quali nel cassetto, molto legati a questi aspetti. Nel momento di esplosione degli NFT, però, ho preferito aspettare a trattarli e l’ho fatto perché nel momento della bolla ritenevo difficile tutelare i nostri clienti. Oggi li trattiamo, ma principalmente con i brand.

Questo approccio, con un e-commerce proprietario e massima trasparenza nei prezzi, è stato copiato?

È successo, ma meno di quanto avrei immaginato. Lo hanno fatto principalmente galleristi giovani, mentre quelli più storici, nonostante non mi abbiano mai espresso contrarietà su queste cose, non lo hanno fatto perché vogliono mantenere la loro filosofia o perché non sempre hanno tutte le competenze tecniche per poterlo fare. In Europa ci sono aziende che utilizzano i nostri modelli, ma siamo un unicum nel settore per due fattori: una parte commerce così sviluppata e la quotazione in Borsa.

Qual è il bilancio a distanza di un anno e mezzo dalla quotazione alla borsa di Milano?

Ci sono lati negativi ma nel complesso la reputo un’operazione positiva. Se dovessi consigliare al me stesso di qualche anno fa gli direi: «Fallo, ma prenditi più tempo». È un passaggio che impatta molto su un’azienda, bisogna prepararsi tutti bene prima di farlo, senza fretta.

In un’intervista di qualche tempo fa dicevi che il segreto è «vendere la Porsche ai non porschisti». Come si fa a farlo, in poche parole?

(Sorride, NdR) Il segreto non è “vendere vendere vendere”, ma far valutare l’acquisto a persone che non lo hanno mai fatto in precedenza. I non porschisti sono gente che non compra arte o che lo fa in modo casuale. Oggi per farlo non ci vogliono per forza cifre eccessive, e questo aiuta.

Ce ne sono ancora tanti di “non porschisti”?

Certo, ed è la mia fortuna.

L’intervista a Deodato Salafia è stata pubblicata su Club Milano 73

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