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CINEMA

Bebo Storti

Attore e testimone scomodo

È su piazza da cinquantacinque anni giocando su diversi registri, comici, satirici, drammatici, riempiendo i teatri e collezionando ruoli di peso al cinema e in tv. La prossima sfida sarà raccontarci la tragedia senza fine dell’amianto

DI PAOLO CRESPI

18 December 2024

Bebo Storti è uno che non le manda a dire. Anche e soprattutto quando parla di sé e del mestiere dell’attore, che esercita da quando aveva 13 anni. La casa dove ti senti più libero?

È quella dove ci sono persone intelligenti che fanno cose di cultura, si tratti di teatro, cinema o televisione. Professionalmente sono nato sul palcoscenico, dopo il mio training alla Civica scuola d’arte drammatica nella bellissima ex sede di corso Magenta a Milano, ma in realtà poi ho lavorato tanto per i film e le serie, una cinquantina di titoli in totale. Dunque il teatro, se vogliamo fare una distinzione, è sempre stato per me un luogo dove poter esprimere valori e concetti che altrove è difficile ti lascino enunciare.

In carriera ti sei sempre mosso fra il registro comico e quello drammatico…

Sì, perché secondo me un attore è un attore, a prescindere. Se poi sa far ridere o pensare, ha una marcia in più. Personalmente credo sia un errore madornale farsi ingabbiare in una definizione. Molti interpreti italiani sono ancorati a un cliché, ma un attore deve poter fare tutto. Se lo fa con sentimento e passione, il risultato è molto spesso un buon lavoro.

Parlando dei tuoi colleghi e del lavoro di squadra, com’è nata la forte intesa umana e artistica con Renato Sarti?

Ci eravamo conosciuti nell’85 al Teatro dell’Elfo, alle prove di Comedians, lo spettacolo di Salvatores tratto dal testo di Griffith che lanciò anche Bisio, Gigio Alberti, Paolo Rossi, Antonio Catania, Silvio Orlando e Gianni Palladino. Crescendo, mi ha dato molto gusto dar vita, insieme a lui al Teatro della Cooperativa (correva l’anno 1989), con spettacoli iconici come La nave fantasma, Mai morti, Santo Beato. Così come poi recitare con Fabrizio Coniglio i testi di Mario Almerighi su mafia e tangentopoli.

I tuoi spettacoli teatrali hanno sempre una forte valenza politica. E in una certa stagione non hai disdegnato nemmeno l’impegno diretto, associando il tuo nome a quello di alcuni partiti. Come valuti oggi quelle scelte?

Per quanto riguarda i Comunisti Italiani, per cui vent’anni fa fummo candidati io, la grande Margherita Hack e l’astronauta Umberto Guidoni, devo dire che non me ne pento. Era un partito battagliero e io sono sempre stato profondamente, instancabilmente (e a volte inspiegabilmente), comunista e anarchico. Su altre esperienze, stendo un velo pietoso.

Nel tuo curriculum ci sono bei film e bei registi, da Salvatores a Bellocchio, da Albanese a Virzì, ma anche un cinepanettone e spot pubblicitari. Rivendichi tutto?

Per quanto riguarda gli spot pubblicitari non mi vergogno di nulla, è lavoro. E quando (raramente) un collega ha avuto qualcosa da obiettare, gli ho risposto: domani ti arrivano le mie bollette: me le paghi tu? Di qualche film un po’ me ne vergogno. Ma quell’unico cinepanettone lo feci per lavorare con il mio amico Ivano Marescotti, scomparso prematuramente lo scorso anno. E sono contento di avere condiviso con lui quel set.

Com’è il tuo rapporto con Milano?

Milano mi piace perché ci sono nato, l’ho vissuta da ragazzino: giocavo a calcio, facevo atletica. Allora ho cominciato a lavorare nello spettacolo, così ora festeggio i 55 anni di impegno indefesso, continuo. Appena diciottenne ho praticamente abitato in pianta stabile nel palazzo delle Stelline di corso Magenta, di fronte a Santa Maria delle Grazie, dove prima della ristrutturazione aveva sede la mitica scuola di teatro fondata da Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Poi naturalmente, per lavoro, ho frequentato molto Roma, la seconda città che amo di più in Italia. Da fan dei dialetti, che parlo e studio da sempre, appena posso li infilo nei miei spettacoli. Memorabile, per me, un Otello recitato al Piccolo con Renato Sarti, in cui il protagonista era mezzo romano e mezzo milanese. Da tempo, però, mi sono trasferito in un paese alle porte di Bergamo. La mia non è la classica fuga dalla metropoli: l’ho fatto per amore. Ma a Milano, dove c’è mio figlio Pietro, affermato TikToker (si dice così?), torno spesso e volentieri. Ogni volta la trovo un po’ migliorata. Credo che Sala sia il sindaco giusto per questa stagione. Per la prossima punto su Pierfrancesco Majorino, un politico coerente, che stimo molto.

E poi c’è la Toscana, dove hai qualche ascendenza familiare, sbaglio?

Macché, mamma e nonni erano stra-milanesi, mentre il babbo era di Carrara, che però è un luogo a parte, un’enclave: guai se provi ad annetterli al Granducato. Naturalmente io adoro la Toscana (a chi non piace?) e il mio conte Uguccione, ad esempio, è nato da una vacanza in quella regione con la mia ex moglie, Cochi Ponzoni e la sua consorte. Un gioco che per fortuna è diventato un lavoro grazie alla Gialappa’s, autori al cinquanta per cento – è bene sottolinearlo – dei successi di tutti i comici passati per le loro mani.

Occasioni in cui ti vedremo prossimamente sugli schermi, piccoli o grandi?

Tre cose che ho girato usciranno tra dicembre e gennaio-febbraio. Una è la seconda stagione di The Bad Guy, la serie diretta da Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana. Un’altra è Fuochi d’artificio, sulla Resistenza, girato in Val di Susa, per Raiuno, dalla regista Susanna Nicchiarelli. La terza, infine, è una miniserie tv di Cosimo Alemà, coprodotta da Rai Fiction. Si intitola Estranei ed è ambientata in una comunità Sikh tra le più grandi d’Europa.

Che succede invece sul fronte teatrale?

Attualmente sono legato al Teatro Della Juta di Arquata Scrivia, in provincia di Alessandria. Mi hanno aspettato a lungo, per via dei miei impegni nella fiction, ma ora è il momento giusto per mettere in scena con loro il mio spettacolo sui danni alla salute dell’amianto, che debutterà a febbraio-marzo 2025 e sarà in tournée nella stagione successiva. La scrittura di Non sentirai niente – come per la malattia che in Italia fa ancora seimila morti l’anno e che per molto tempo, come è noto, rimane asintomatica – è iniziata tre anni fa. È un viaggio nella storia di una piaga sociale voluta, ammessa e minimizzata da imprenditori e politici per motivi di mero profitto fin dalle ultime decadi dell’Ottocento, quando già si conoscevano gli effetti devastanti dell’amianto polverizzato sui polmoni degli operai. Recentemente un dentista mi ha rivelato che tra i materiali utilizzati per le otturazioni, fu utilizzato, per certe sue proprietà chimico-fisiche, anche l’amianto… Ci rendiamo conto?

Domanda di alleggerimento: il calcio è sempre in cima ai tuoi pensieri?

Il calcio è una malattia cronica. Ai tempi di Moratti presidente fui uno dei tre a mettere la faccia sui giornali per la campagna abbonamenti Tira fuori il nerazzurro che c’è in te. Eravamo io, Aldo, Giovanni e Giacomo e Paolo Rossi. Io facevo il torero. L’esperienza mi portò a frequentare di più San Siro e – ciò che più conta – a far diventare interista mio figlio. Insieme abbiamo vissuto una stagione meravigliosa. Che tra l’altro non è ancora finita, perché la nuova presidenza e l’allenatore Inzaghi ci stanno dando belle soddisfazioni. Mi spiace solo per i miei amici milanisti…

Al tavolo da gioco sei, mi dicono, un abile giocatore di poker. E nella vita?

Mi chiedi se uso le tecniche del Texas Hold’em per farmi strada? No, io nella vita non so bleffare. Sono terribilmente sincero. Però tutte le mattine gioco online a Scala 40, Burraco e Earth: mi diverte e soprattutto non mi fa invecchiare e mi aiuta a far funzionare il cervello.

L’intervista a Bebo Storti è stata pubblicata su Club Milano 73

 

 

In apertura, Bebo Storti. Foto di Andrea Ciccalè

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