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FOTOGRAFIA

Alberto Bernasconi

La professione del fotografo

L’esperienza sul campo di un professionista che si è rimesso in gioco e continua a scegliere, per vivere, la Milano più autentica, al riparo dai trend e dalla gentrificazione

DI PAOLO CRESPI

23 July 2025

Il tuo portfolio è molto ricco e denota una padronanza di generi molto diversi tra loro, dal ritratto al reportage di viaggio, alla foto industriale. C’è un ambito che prediligi?

Ciò a cui sono più affezionato è raccontare le storie, la narrazione. Che poi si diversifica e fa da fil rouge al mio lavoro attraversando tutte le tipologie dei servizi che mi capita di realizzare: la complessità di punti di vista è ciò che davvero mi interessa e fa la differenza, anche nel lavoro più commerciale.

Il talento, per fiorire, presuppone una buona formazione. Qual è stata la tua? 

Come per molti fotografi della mia classe – io sono del 1970 – l’imprinting è stato frequentare qui a Milano la scuola Bauer, dove mi sono diplomato. Poi, naturalmente, a indirizzarmi e a farmi crescere sono state le richieste della committenza, che per un certo numero di anni era soprattutto editoriale, mentre poi questo mondo si è progressivamente atrofizzato fin quasi a sparire: si può dire che noi cinquantenni siamo l’ultima generazione ad acquistare ancora dei magazine. Chi avrebbe scommesso, trent’anni fa, che la stampa periodica si sarebbe quasi estinta? Invece è successo, con qualche sacca di resistenza in un “mercato”, quello italiano, già debole e povero di lettori. L’alternativa, per noi che siamo ancora affezionati a questa parte della nostra professione, è lavorare con i giornali esteri, dove ci sono ancora risorse e forse una cultura diversa.

Qualche esempio?

Ho appena fatto un lavoro per il Financial Times, che è un quotidiano ma produce ancora delle storie. E per Stern, il news magazine tedesco ancora molto letto e dove a occuparsi della ricerca fotografica c’è un intero staff di photo editor, mentre da noi, a parte qualche lodevole eccezione, questa professionalità è sempre stata sottovalutata.

Per lavoro hai viaggiato e viaggi ancora molto. Paesi che ti hanno stregato?

Forse il Vietnam, dove sono stato tre volte, la prima delle quali non come fotografo ma come assistente di camera per un film sulla musica locale con la partecipazione di Paolo Fresu. Una bellissima esperienza in un luogo affascinante, dove spero di tornare, anche per vedere di persona le grandi trasformazioni degli ultimi anni in città vitalissime come Hanoi e Saigon, paragonabili, per la loro estrema diversità, alle nostre Milano e Napoli.

A proposito di Milano, com’è il tuo rapporto con la nostra città?

Premetto che sono nato in provincia di Como e quindi Milano è la mia città adottiva, dove sono arrivato da ragazzo e dove, a parte una parentesi londinese, ho sempre vissuto. Per comodità (una parte della mia famiglia è in Svizzera, a Lugano) ho sempre abitato nella parte nord e da oltre vent’anni mi sono stabilito nel quartiere di Dergano. Mi ci trovo molto bene per le caratteristiche di “paese” che ancora lo contraddistinguono, a differenza per esempio dell’Isola, che oggi è un’unica sequenza di bar e ristoranti. Da residente, osservo con un po’ di ansia ogni minimo segnale di gentrificazione.

Come nasce il tuo scatto scelto per la copertina di questo numero di Club Milano?

Ero di passaggio in Triennale per visitare la mostra del fotografo di moda Juergen Teller e mi sono affacciato sulla nuova sala di consultazione. Il particolare è quello della scala a chiocciola oltre la vetrata colorata che dà sul parco. Visto e preso, senza premeditazione. Data la mia proverbiale pigrizia, non giro mai con il cavalletto e sono sempre alla ricerca di strumenti di ripresa leggeri, possibilmente tascabili.

Deduco che non ami lavorare in studio…

Non ne ho mai voluto uno mio, preferisco andare a scoprire quello che c’è fuori. Sono un pessimo disegnatore e ho sempre immaginato lo studio come un foglio bianco su cui dover cominciare a disegnare: it’s not my job. Preferisco lavorare all’esterno e mettere in ordine quello che trovo. Che è un po’ il compito del fotografo di reportage: gestire l’esistente, modificandolo, anche, se necessario.

I tuoi esordi come fotografo sono stati in analogico?

È stato così negli anni di scuola e come assistente, occupandomi anche di sviluppo. In realtà quando ho iniziato la professione autonoma sono partito già con le prime, rudimentali reflex digitali.

Oggi la prospettiva dell’intelligenza artificiale generativa ti spaventa o ti affascina?

Direi entrambe le cose. Da un anno a questa parte c’è stato un salto quantico e penso che prossimamente molti lavori tradizionali subiranno dei tagli, compresa la fotografia, che dovrà trovare una nuova collocazione. Personalmente mi tocca solo tangenzialmente: magari fra dieci anni farò altro nella mia vita.

L’intervista ad Alberto Bernasconi è stata pubblicata su Club Milano 75

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