Vi spieghiamo perché Sarajevo rappresenta un modello di integrazione tra Oriente e Occidente, un piccolo laboratorio di convivenza a cui tutti oggi dovrebbero guardare
DI STEFANO AMPOLLINI
13 November 2024
In un momento storico come questo, così profondamente lacerato da conflitti che amplificano la distanza tra Oriente e Occidente e creano una spaccatura tra popoli fino a ieri dialoganti e capaci a vivere fianco a fianco, in troppi dimenticano le lezioni del passato. Non più tardi di 30 anni fa l’Europa venne sconvolta da una guerra fratricida che seguì all’implosione dell’ex Jugoslavia. La guerra di Bosnia ed Erzegovina fu una macchia indelebile nella storia del nostro continente, incapace di fermare quel bagno di sangue. Tra tutti gli episodi che caratterizzarono quegli anni bui il più significativo fu certamente l’assedio di Sarajevo protrattosi dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996. Fino ad allora la capitale bosniaca era stato uno dei migliori laboratori di integrazione tra cultura occidentale e cultura orientale, fino a ospitare nel 1984 i Giochi olimpici invernali, tuttora ricordati tra i più belli e coinvolgenti di sempre, con l’iconica torre che ancora svetta sulla città a memoria di quei giorni così carichi di significato. Sarajevo ha saputo risollevarsi con una resilienza e una visione del proprio ruolo che ha dell’incredibile. Oggi, mentre il mondo impazzito tutto attorno costruisce muri e spara razzi, qua si respira un’aria diversa. Una linea tracciata per terra sulla via principale del piccolo centro storico separa idealmente, ma senza dividere, la zona Est da quella Ovest. Da un lato minareti e moschee che svettano nel suq disseminato di bazar, botteghe artigiane di ferro battuto, piccole biblioteche e locali dove sorseggiare il thè o il caffè turco, oppure mangiare i classici cevapcici (carne macinata e speziata, cotta sulla brace). Dall’altro lato, nell’arco di poche centinaia di metri, sorgono una chiesa cattolica, una ortodossa e una sinagoga. Ma anche catene di abbigliamento occidentale, locali alla moda e soprattutto i mercati di frutta e verdura, che durante l’assedio furono tra i target preferiti delle milizie serbo-bosniache asserragliate sulle colline che circondano la città. Oggi forse proprio questi banchi così ricchi di colore rappresentano più di ogni altro luogo il riscatto di Sarajevo, che ha saputo voltare pagina, senza però dimenticare il suo passato.
Impossibile venire fin qui e non visitare alcuni dei luoghi simbolo che raccontano perfettamente la rinascita della capitale bosniaca. Tra questi la Biblioteca nazionale, perfettamente ricostruita dopo essere stata colpita da bombe incendiarie nella notte del 25 agosto 1992. Solo un decimo dei libri qui conservati riuscì a salvarsi dalle fiamme, ma l’edificio è oggi una perfetta testimonianza di ripartenza. In città diverse mostre fotografiche e piccoli musei raccontano con dovizia di particolari come i cittadini riuscirono a sopravvivere sotto le bombe per quasi quattro anni, mentre allontanandosi un po’ dal centro si può visitare una parte del famoso tunnel costruito sotto il vecchio aeroporto. Questa galleria fu vitale per superare l’embargo e far arrivare in città generi di prima necessità e aiuti umanitari. La visita a Sarajevo non può che terminare alla Fortezza Gialla, il punto panoramico più suggestivo della città. Arrivando qua al tramonto si possono ammirare le luci calde che si rispecchiano su chiese e moschee, ma anche sulle migliaia di pietre tombali di granito ospitate nei troppi cimiteri che poggiano sulle colline tutto attorno. A quell’ora i canti dei muezzin sono la colonna sonora perfetta di un viaggio che resterà nel cuore a chiunque.
L’articolo è stato pubblicato su Club Milano 72