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CULTURA

Massimiliano Tarantino

Cultura e società in piazza

Il direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli spiega come il lavoro dell’istituzione meneghina sia in grado di analizzare a equa distanza tutte le tematiche di oggi e i protagonisti che le animano. In una città che ha saputo cambiare negli anni e a cui si è sempre più affezionato

DI SIMONE ZENI

08 November 2023

Quando è nata la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli?

È nata oltre settant’anni fa e fu una delle prime fondazioni riconosciute con decreto del Presidente della Repubblica. In principio era Biblioteca Feltrinelli, poi Istituto Feltrinelli, quindi negli anni Settanta divenne Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. È rimasta sempre un’istituzione a origine privata ma con vocazione pubblica, una vocazione che si manifesta soprattutto nella costante interlocuzione con il mondo della ricerca. Tutto questo fino all’importante svolta del 2011.

Cos’è successo di tanto importante in quell’anno?

Nel 2011 Carlo Feltrinelli ha proposto la realizzazione di un progetto a dir poco ambizioso: la costruzione di uno straordinario edificio in Porta Volta, disegnato da Herzog & de Meuron, che diventasse la nostra sede. Un progetto che, come tutti sanno, oggi è diventato realtà. Sotto la giunta Moratti ha avuto l’approvazione, sotto la giunta Pisapia c’è stata poi la posa della prima pietra, mentre con la giunta Sala abbiamo visto i frutti dell’impatto che Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, nella sua dimensione di “piazza” aperta alla cittadinanza, ha avuto non soltanto nel cambiamento del centro di Milano ma anche sul panorama culturale locale e nazionale.

Perché utilizza il termine “piazza” per definire questo edificio?

C’è, coerentemente con la nostra critica al capitalismo, al consumismo sfrenato e alla logica erosiva delle risorse naturali e del suolo, un concetto antico di piazza, come di luogo in cui fermarsi, confrontarsi sorseggiando un caffè, discutere anche animatamente. Sono poche ormai queste dimensioni di piazza, forse se ne trova qualcuna in provincia. Questo edificio è stato concepito dunque per colmare questo vuoto nella grande città, come una piazza che potesse continuamente essere porosa, nel dialogo tra dentro e fuori. Ovvero tra il luogo della ricerca e la società reale che vive fuori da questo palazzo. Come se fossimo in un’imponente comune, non nella concezione settecentesca o ottocentesca di comunitarismo, bensì intesa come, citando il nostro Presidente Onorario Salvatore Veca, “La gran città del genere umano”.

Qual è oggi la mission che perseguite?

Siamo un’istituzione di ricerca che in questi anni è diventata anche ente di produzione culturale. Alla base di tutto c’è la passione e l’interesse per le trasformazioni. Un termine chiave che noi interpretiamo a 360 gradi: trasformazioni economiche ma anche sociali e politiche. Mettiamo in relazione il pensiero accademico con i fenomeni che hanno un impatto effettivo sulle persone. Mettiamo inoltre un grande impegno nel racconto e nella valorizzazione della storia, in particolare degli snodi storici in cui sono stati protagonisti i cittadini e non il cosiddetto “potere costituito”.

In parole povere: cos’è d’interesse per la vostra attività?

Ci occupiamo a tuttotondo di ciò che risuona nel concetto di democrazia. E vogliamo farlo dando spazio alla cittadinanza attiva, a chi fa politica oltre la politica.

Con questo obiettivo, come si mantiene la giusta distanza in un presente politico che potremmo definire quantomeno travagliato?

La ricerca scientifica, per definizione, deve basarsi sui fatti. Diventa credibile quando non è giudizio ma analisi, così è utile al cittadino per farsi un’idea. Credo che parte del nostro successo sia dovuto al fatto che abbiamo stupito. Forse ci si aspettava che saremmo stati di parte, che facessimo un lavoro di alimentazione di un campo politico. Non siamo mai stati questo, siamo il complice del cittadino che vuole una bussola per orientarsi.

In questi anni gli eventi realizzati dalla Fondazione sono stati molteplici. Ce ne sono alcuni che le sono rimasti, per qualunque motivo, più impressi di altri?

Ogni anno organizziamo circa duecento incontri a stagione e accogliamo in questa “piazza” oltre 400.000 persone. Gli appuntamenti che mi rimangono più impressi non sono prioritariamente quelli più numerosi, mi piace ricordare le cose a cui abbiamo lavorato inseguendo i desideri delle comunità che guardano maggiormente e noi. Ad esempio ricordo con affetto l’iniziativa che abbiamo organizzato in occasione del primo anniversario della tragica scomparsa di Giulio Regeni. Il titolo era Libertà è ricerca. Oppure la prima edizione dell’Isola che non c’è, programma dedicato ai bambini in cui gli argomenti che regolarmente affrontiamo con gli adulti, come diritti, uguaglianza, inclusione e sostenibilità, sono stati declinati per essere percepiti naturalmente da un pubblico under otto. Ci fu una vera a propria, piacevole invasione di bimbi in tutta la Fondazione.

Numerose sono le iniziative anche nel 2023. Cosa prevede la vostra “Stagione Scomposta” per l’ultima parte dell’anno?

L’autunno si svolge all’insegna dei grandi festival e delle rassegne. Mi sento di citarne quattro su tutti: About a City, sulla trasformazione urbana; Jobless Society Forum, sul futuro del lavoro e sull’impatto della trasformazione digitale; Transition Days, forum sulle nuove economie sostenibili; a dicembre si chiude con Democrazia Minima.

Che rapporto ha con Milano?

Sono nato a Trieste, per esperienze lavorative e di vita ho vissuto a Londra, Roma, Firenze, Pisa. Vivo qui dunque “soltanto” da diciotto anni. Inizialmente questa città era diversa, non ne subivo in alcun modo il fascino, al contrario ne ero piuttosto intimorito. Sembrava chiusa in tante piccole scatole e relegava dentro queste scatoline anche tutte le persone che la abitavano. Milano è cambiata sotto i miei occhi e io con lei. Siamo cresciuti insieme, siamo diventati grandi. Oggi posso dire che mi piace scoprirla nei suoi lati e nelle sue comunità tutt’altro che convenzionali. È diventata internazionale, pur mantenendo i suoi aspetti talvolta misteriosi, talvolta persino scontati. Provo grande affetto ora per Milano, a cui ho dato tutto ciò che potevo ma che ha saputo restituirmi altrettanto.

Qual è il maggior difetto che le attribuisce?

Sono profondamente convinto che debba ancora migliorare nella sua relazione con chi la abita. Questa osservazione non vuole essere in alcun modo una critica istituzionale. Semplicemente credo che sia necessario lavorare tutti di più per crescere una generazione di giovani che abbiano a cuore il futuro di questa città. Ho la sensazione che non stia accadendo. C’è un atteggiamento un po’ erosivo: “Prendiamo quello che c’è da prendere, e c’è molto, e poi chissenefrega”. Dobbiamo entrare in dialogo con quel “chissenefrega”, sviscerarlo. Lì dentro c’è tanta densità di progetto che deve essere invece tirata fuori e canalizzata positivamente sul territorio.

Un luogo che ama o a cui è particolarmente affezionato?

Ho da poco cambiato quartiere ma ho abitato per diverso tempo proprio accanto alla Basilica di Sant’Ambrogio. Non sono cattolico ma ho un rapporto intenso con la spiritualità e i suoi luoghi. Trovo che questa basilica porti con sé un’energia speciale, molto intima.

L’intervista a Massimiliano Tarantino è stata pubblicata su Club Milano 68. Clicca qui per sfogliare il magazine.

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