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MUSICA

Marco Massa

Il ritratto di un cantautore libero

È atteso questa sera alle ore 21.00 al Teatro Martinitt dove porterà in scena una performance fusione di musica e teatro. Cantautore indipendente e voce elegante della scena milanese, Marco Massa racconta il suo legame profondo con Milano, i club che hanno segnato la sua formazione, il senso dell’essere cantautore oggi e il nuovo album omonimo

DI MARCO TORCASIO

16 December 2025

C’è un’idea di musica che resiste al rumore del tempo, fatta di lentezza, attenzione e responsabilità verso ciò che si racconta. Marco Massa incarna questa postura rara: uno sguardo laterale, mai compiacente, capace di attraversare linguaggi diversi senza perdere coerenza. La sua è una traiettoria costruita fuori dalle mode, dove la canzone diventa spazio di riflessione e l’ascolto un atto quasi politico. In questo dialogo emerge il ritratto di un artista che continua a interrogarsi sul senso del creare oggi, tenendo insieme fragilità, rigore e libertà espressiva.

Milano è una presenza costante nella tua musica e nella tua storia personale. Quali sono i luoghi della città che senti davvero “tuoi”, quelli che hanno accompagnato la tua crescita umana e artistica?

Milano è stata – e continua a essere – il mio grembo sonoro. I luoghi che porto nel cuore sono tanti, forse troppi, ma alcuni sono stati decisivi per la mia crescita umana e artistica. Penso ai locali di Brera, come il Ponte di Brera, dove suonava il pianoforte il mio mentore Renato Sellani, e poi Il Ragno, il Biblos, Il 2. E ancora i Navigli con il Capolinea, il Tangram, il Grillo Parlante, le Scimmie e la Pasticceria Casale. Sono stati i luoghi dei miei primi passi, dove mi esibivo, imparavo e osservavo. Poi ci sono i luoghi delle compagnie e della vita quotidiana; l’Arci Bellezza, con la sua storica palestra di pugilato che mi ha sempre ricordato il film Rocco e i suoi fratelli di Visconti, il Parco Ravizza, la mia vecchia scuola di Agraria a Quartoggiaro e infine la zona romana, dove ancora oggi vivo. Milano è fatta di strati, e io mi porto addosso molti di quei passaggi.

Hai iniziato a suonare nei club milanesi negli anni Ottanta, quando la città era un laboratorio musicale molto vivo. Come percepisci oggi il cambiamento della scena artistica rispetto a quel periodo?

Tutti i locali che ho citato prima non esistono più, e questo dice già molto. Erano luoghi di confronto non solo artistico, ma umano, frequentati da persone diverse, accessibili a tutti. Con una birra e un panino potevi assistere a un concerto straordinario. La cultura era per tutti, non un lusso. Oggi faccio fatica a parlare di un vero “cambiamento della scena”, spesso vedo più attenzione al guadagno e all’apparire che al confronto e alla condivisione. Questo spirito solidale si è in gran parte perso, ed è un peccato. Questo non significa che a Milano non esistano bei locali o realtà interessanti; esistono, ma hanno un altro spirito e a volte sento il bisogno di tornare a casa più che restare.

Qual è la maggiore difficoltà per un cantautore oggi? Trovare ascolto o anche altro?

Paradossalmente, trovare ascolto oggi è forse più facile di un tempo. I social offrono possibilità enormi, ma bisogna conoscere bene i meccanismi di questo mondo veloce e un po’ folle. Quello che invece mi interroga è il significato stesso della parola cantautore. Con l’intelligenza artificiale e la produzione accelerata, ho paura che spesso i risultati non siano più davvero “farina del proprio sacco”. Io sono lento, amo i dettagli, posso metterci anche cinque anni a fare un disco, ma deve essere tutto vero.

Il tuo nuovo album porta semplicemente il tuo nome, come fosse un ritratto. Tu l’hai descritto come un disco che “non cerca di piacere, ma di raccontare”. Spiegaci Cosa intendi?

Sono arrivato a un’età in cui non sento più il bisogno di piacere, né l’interesse a farlo. Sento invece l’esigenza di raccontare e di raccontarmi. È una scelta più stimolante, perché mi porta a una ricerca continua su me stesso. Mi fa bene, mi rende libero. Oggi, per me, questa è la cosa più importante.

La canzone Cara Milano è diventata negli anni una sorta di dichiarazione d’amore critica verso la città. Perché hai deciso di inserirla di nuovo in tracklist?

In ogni disco che faccio c’è una Cara Milano. Sempre diversa, ma sempre presente. Forse seguo solo il suo ritmo. Milano è la mia città, è la storia e le storie che ho vissuto e che continuo a vivere, tra amore e sofferenza. Credo che ogni artista di questa città dovrebbe raccontarla, anche – e soprattutto – per la sua impermanenza, tenendo a cuore ciò che è stato. Ogni nutrimento ricevuto ha un valore immenso.

Nel tempo hai mantenuto una forte indipendenza artistica, scegliendo spesso percorsi laterali. Quanto è stata una necessità personale e quanto una risposta al contesto culturale della città?

La mia indipendenza artistica non è stata sofferta, è stata naturale. Non sono mai entrato davvero nel grande calderone dello show business e non per rifiuto ideologico, ma per una sorta di istinto. Ho avuto contratti discografici ed editoriali, ci ho provato, ma le mie canzoni hanno sempre scelto percorsi laterali, forse meno visibili ma per me di pari dignità. Non so se siano stati “giusti”, ma mi hanno reso felice e orgoglioso del mio cammino. Le crisi arrivano comunque, che tu sia famoso o no. Tanto vale vivere situazioni in cui ti senti almeno a tuo agio. Milano mi ha dato molto, ma ho viaggiato tanto anche all’estero, e spesso ho avuto riscontri persino migliori che in Italia.

Progetti come Caro Amico o Clandestino mostrano una ricerca che va oltre il concerto tradizionale. Ce ne parli?

Sono progetti nati da una ricerca profonda e condivisa. Ho lavorato con scrittori, sceneggiatori, poeti e attori come Danilo Darodda, con cui sono attualmente in scena nei teatri, e Ignazio Occhipinti, attore, drammaturgo e musicista. Con noi c’è anche Marco Montanari, che io chiamo “l’uomo dei suoni”. Queste pièce si svolgono nel buio assoluto, quello del Teatro dell’Istituto dei Ciechi di Milano. Caro Amico sarà in scena ancora nel 2026 il 29 gennaio, 19 febbraio e 19 marzo. È un’esperienza unica per il pubblico. Il suono è in quadrifonia, ma soprattutto c’è una storia – forse la nostra – raccontata attraverso le mie canzoni e un testo teatrale meraviglioso di Danilo Darodda. È un modo diverso di fare spettacolo, senza l’apparire. Nel buio ci si concentra davvero sull’ascolto, senza condizionamenti. Da ragazzo, nel buio della mia stanza, ascoltavo la radio notturna: la mente viaggiava ovunque. Forse tutto nasce da lì.

Guardando al 2026, immagini un futuro più legato alla città o senti il bisogno di allontanarti per raccontarti da un’altra prospettiva?

Immagino un futuro in entrambe le direzioni. Ma, a essere sincero, spero che la mia musica e i miei progetti mi portino sempre più lontano da questo Paese mancato e da una città che oggi vedo in continua distruzione. Vedo cantieri ovunque, lavori su lavori, senza che nessuno abbia mai chiesto come avremmo voluto vivere questi cambiamenti. Io avrei desiderato più ascolto, più rispetto. Sì, vorrei raccontarmi da un’altra prospettiva, senza però perdere la speranza. Come canto in Cara Milano: “Ritorna come prima, tra la gente.”

Informazioni 

Caro Amico 
Spettacolo teatrale di Marco Massa insieme al poeta e attore Danilo Da Rodda
16 dicembre, ore 21.00
Teatro Martinitt

 

 

In apertura, Marco Massa ritratto da Maria Elena Fantasia

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