L'abilità di Stefano Bollani nel'acarezzare i tasti è aprezzata in tutto il mondo e, come dice lui, ha suonato "dalla Scala, quella vera, al sottoscala", perché gli piace cambiare spesso atmosfera. Semba che il suo taleno non abia confini, nemeno artistici, così da potersi misurare anche nella stesura di libri e nella conduzione televisiva
DI ANDREA ZAPPA
21 November 2013
Cerco semplicemente di parlare di cose che mi piacciono e quindi sono avvantaggiato rispetto a chi fa il conduttore di professione, costretto magari a parlare di argomenti di cui non sa nulla o di cui non è interessato. In Sostiene Bollani mi sono comportato un po’ come nella realtà di un concerto: mi piace interagire con il pubblico, raccontando e suonando le cose che amo.
L’unica vera distinzione è tra Italia e resto del mondo: qui, avendo fatto televisione, radio e avendo scritto un paio di libri, sono conosciuto anche per motivi extramusicali, di conseguenza il pubblico reagisce in maniera diversa, oltre a essere più numeroso. All’estero, essendo conosciuto solo come musicista di jazz e suonando in contesti come i festival, la gente si aspetta meno quel lato di entertainment, per il quale poi magari rimane anche felicemente colpita. Ovviamente, poi, ogni concerto è diverso ma, se devo generalizzare, questa è l’unica vera differenza che noto nel pubblico.
Direi da qualsiasi cosa, da quello che hai mangiato, dal pianoforte che stai suonando, dalla reazione del pubblico, dal teatro che ti accoglie, dalla tua stanchezza… Quando suoni jazz non stai riproponendo qualcosa di preconfezionato; di conseguenza devi per forza entrare in contatto con te stesso, senza mezze misure. Devi essere onesto con quello che ti va di raccontare in quel momento.
Diciamo che il soundcheck non mi diverte molto, anzi, lo sopporto se è fatto con un gruppo. Se devo suonare da solo, però, preferisco evitarlo. Ho per fortuna il mio fonico, Roberto Lioli, che se ne occupa. Salire sul palco e incontrare il pianoforte in quel momento senza mai averlo provato prima è una cosa che mi piace molto, che mi stimola.
Non sono d’accordo con il termine utilizzato, sembra quasi che il resto della musica sia un po’ incolta, e non è così. Però non si può negare che il jazz abbia subito molte trasformazioni e che nella percezione delle persone, ma anche degli stessi musicisti da musica popolare che si ballava è diventato più una musica da ascolto, che si avvicina sempre più al mondo della classica.
Senza dubbio nella seconda, la musica che rappresenta il mondo in cui viviamo non potrebbe essere gioiosa come la musica che piace a me. Se dovessimo raccontare musicalmente la realtà di oggi non sarebbe molto piacevole da udire. Con la mia musica, ma anche con quello che leggo o che vado a vedere al cinema, cerco di volare da un’altra parte.
L’amore per quella musica e per quel paese in generale è nato quando ero ragazzino grazie a un disco di George Gilberto, che tra l’altro era l’esatto contrario dell’idea di Brasile che uno ha: era una musica intrisa di malinconia, molto sussurrata. È un paese che vive due estremi, uno di grande allegria che nasconde però un lato oscuro, anch’esso molto forte. Una saudade che in qualche modo ricorda un po’ quella napoletana o genovese e che si ritrova più in generale in tutte quelle musiche che nascono sul mare. Tutto quello che è malinconia per qualcosa che si è perso o che si sta per perdere. In tutto questo è nato poi un amore per la lingua brasiliana e per le loro tradizioni.
Qualsiasi cosa, anche se poi ho le mie passioni fisse da molti anni, da Frank Sinatra a Caetano Veloso, Ray Charles e Stevie Wonder. Sono quelle voci che mi fanno rilassare. E poi c’è anche Frank Zappa, lui era uno dei miei miti quando ero adolescente. È un formidabile manipolatore di suoni, ma è anche uno che dell’ironia feroce ha fatto un’arma contro il resto del mondo. Un’arma che non ha fatto danni, ma anzi, ha solo creato nuova musica inspirando un sacco di artisti dopo di lui.
A un bambino, ma forse anche a un adulto, più che descriverla bisognerebbe farla provare. Si dovrebbe fare così in generale, ci sono tanti bambini che non sono abituati ad ascoltare musica, molti non si relazionano a uno strumento se non in età adolescenziale, un po’ tardi forse. La musica è piena di stimoli.
Intanto dovrebbe imparare a gestire i soldi disponibili: spesso non è vero che mancano, a volte sono solo gestiti male. In una città grande e importante come Milano sta scomparendo l’attività live quotidiana, sto parlando nello specifico del jazz. E così, come sparisce nel mondo la classe media, piano piano rischia di scomparire la classe media dei musicisti. Una volta in città c’erano molti più locali in cui si suonava quasi tutte le sere. Quindi la gente la prendeva come un abitudine e il concerto non era più un evento eccezionale, ma era più come: “Dai, questa sera andiamo a sentire un po’ di musica”.
Pur essendo milanese di nascita, non abito più qui da tempo, e quindi ti mentirei, ho perso un po’ il giro dei locali. Mi ricordo la Salumeria della Musica, che cerca di resistere nonostante tutto e poi c’è La Buca, un posto molto piccolo dove si fanno le jam session, diventato un punto di ritrovo per musicisti. In generale, un luogo di incontro per gente che fa musica manca un po’ in tutte le città italiane. È importante ritrovarsi, altrimenti si rimane dei nomadi con la propria musica, senza mai dialogare con gli altri.
Per quanto riguarda il jazz senza dubbio Copenhagen, pur essendo una cittadina abbastanza piccola ha un’alta concentrazione di musicisti di buon livello e, soprattutto, di locali in cui ascoltare musica dal vivo. Poi c’è Berlino.
Il jazz è una musica piena di aneddoti, forse più di altre, ce ne sono moltissimi, così di getto me ne viene in mente uno su Thelonious Monk. Era un pianista bizzarro, freak, uno che non aveva grande tecnica ma aveva un suo “genio”. Si narra che Bud Powell sia entrato una volta in un locale e abbia sentito suonare uno in maniera velocissima e virtuosa, nello stile del grande Art Tatum. Poi, entrato nella stanza, si accorse che era Monk, il più insospettabile, e questo gli disse: “Non lo dire a nessuno”. Come a indicare che lui avrebbe potuto suonare come gli altri ma non voleva, la sua era una scelta, quella dell’essere così freak e particolare musicalmente. I jazzisti studiano la musica degli altri, ma poi cercano sempre di essere molto personali.
Per me sono distinte, il libro viene limato e sistemato, invece nei concerti quando suono, improvviso moltissimo. Non sono un compositore nel senso tradizionale del termine, che sta mesi e mesi su una stessa composizione per poi consegnarla ai posteri in una forma perfetta. Divento, invece, un po’ compositore quando mi metto a scrivere un libro, perché so che, una volta stampato, quella è la sua forma quindi deve avere una precisa coerenza e una sua logica.
Molti musicisti suonano e sono talmente preoccupati di quello che stanno facendo che non trovano né il tempo né il modo di ascoltare le persone che gli stanno attorno sul palco. E questo accade anche nella vita: spesso siamo troppo attenti a noi stessi, a quello che stiamo dicendo, pensando, vivendo e perdiamo di vista ciò che ci avviene attorno.
Quell’idea non è mai stata abbandonata, qua e là mi diletto anche in quest’arte. In realtà ho iniziato a studiare pianoforte più che altro perché volevo potermi accompagnare, poi mi sono un po’ distratto. Ma prima o poi è certo, tornerò a fare il cantante!
Intervista pubblicata su Club Milano 17, novembre – dicembre 2013. Clicca qui per sfogliare il magazine. Foto di Giuliano Guarnieri.