Guida una Jaguar, progeta nuovi libri, racconta i suoi menù da una app e ha appena inaugurato l'Accademia, un'inovativa scuola di cucina in Bonvesin de la Riva, proprio la via in cui, sul finire degli anni Settanta, aveva spiccato il volo con la ristorazione autonoma. È un Gualtiero Marchesi scatenato quello che si muove tra città e campagna: tra la sua Milano, dove con un occhio vigile sorveglia ogni sera sala e cucina del centralissimo Marchesino, le lezioni nel parlmense all'Alma e la scuola professionale di cui è rettore.
DI PAOLO CRESPI
24 November 2014
Sedersi sugli allori non ha senso e soprattutto è maledettamente noioso, a qualunque età. Io, lo dico sempre, mi difendo attaccando. Anche se non sono più in prima linea ai fornelli, mi circondo di bravi collaboratori, a cui delego molto, e sovrintendo alla buona esecuzione, nel tempo, di tutti i menù. Mi piace anche sedermi a tavola come un semplice avventore, e assaggiare di volta in volta questa o quella portata. Il controllo del palato (meglio se “assoluto”, come quello musicale) è sempre il più sicuro. Certo, come decano dei cuochi italiani potrei limitarmi a fare il “padre nobile” e andare in giro a raccogliere i numerosi premi che ovunque continuano a tributarmi. Fra un po’ non saprò dove metterli, ma per fortuna non è più una chimera l’approdo della Fondazione Marchesi, con l’annunciata Accademia del gusto e delle arti, a Villa Mylius, 2.800 metri quadrati di superficie e tanto verde intorno, alle porte di Varese. Viaggiare e prendere appunti, oltretutto, è anche una grande fonte di ispirazione. A volte compro un bel piatto di porcellana, un po’ particolare, e parto da lì per comporre qualcosa di nuovo o rivisitare qualcosa di antico.
Non è una mera questione linguistica. A chef, che significa solo “capo”, in qualunque settore, e di per sé non vuol dir nulla (nel nostro caso bisognerebbe dire quantomeno “chef di cucina”), ho sempre preferito la parola italiana, molto più specifica e pregna di significati nella nostra tradizione. Compositore potrebbe sembrare un vezzo ma in realtà esprime bene quello che ho cercato di fare, da un certo punto in poi, della mia professione, in analogia con la musica, che è tanta parte della mia vita, avendo avuto una moglie pianista, due figlie e una nidiata di nipoti, tutti musicisti, e di talento. Implica gusto, disciplina, senso dell’armonia e una solida tensione creativa, il desiderio di innovare, sia nel contenuto del piatto che nella sua presentazione e nel contesto in cui la proposta è inserita. Inoltre, come diceva Alban Berg, “l’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia”.
Ne riconosco la paternità. Vede, la cucina è arte ma di base è una scienza perché c’è chimica e fisica dentro. Chimici dell’intuizione, ci definiva Ernesto Illy, padre di Andrea e Riccardo, che alla competenza nel mondo del caffè univa un grande sapere scientifico. E più recentemente Ermanno Olmi mi ha dato la sua benedizione: “Gualtiero, la cucina è un’arte, la più grande di tutte perché comprende anche la scienza”. Ma a Milano si dice spesso dei cuochi che sono dei “brusa padei” perché in pochi sanno controllare bene i fuochi e gli altri, di conseguenza, bruciano i ferri del mestiere. Alla lettera. D’altra parte viviamo nel Paese del tutto troppo cotto. Sempre a giocare con quell’alibi che una pietanza debba essere “ben cotta”, che però è tutt’altra cosa dal “cotta bene”, a puntino, nel rispetto della materia prima, che per me, come per i cuochi giapponesi, dev’essere assoluto. Mi è sempre piaciuto esaltare il prodotto e amo troppo la materia per violentarla, sopraffarla, distruggerla. “Lascia com’è per vedere come rimane”, recita un vecchio proverbio brasiliano. Un pezzo di branzino o un pezzo di carne, cotti perfettamente… Più buoni di così davvero non si può! L’importante, poi, è masticare bene: il cibo deve scendere liquido, diceva Gandhi, uno che di diete se ne intendeva.
Le guide possono ancora accendere la curiosità delle persone che le consultano, ma forse bisognerebbe riformare la testa di chi va fuori a recensire e ad appuntare (o levare) medaglie. Afferma uno scrittore americano di cui ho dimenticato il nome: il critico è una persona che dice di conoscere la strada, ma in effetti non sa guidare. Ecco, io vorrei che il giornalista, magari colto ma non sempre ferrato, si confrontasse con l’oste, anche solo per capire, senza per questo farsi plagiare nel giudizio. Dialogando si può spiegare meglio quello che si sta facendo. Un po’ quello che ho potuto sperimentare con alcuni grandi nomi dell’enogastronomia ai loro esordi, molto tempo fa, quando anch’io ero in crescita, iniziandoli a quella che avevo battezzato nel primo libro La mia nuova grande cucina italiana. Una cucina anche fisicamente grande, tendenzialmente aperta e senza segreti, che sa guardare lontano e non insegue la tipicità, che si trova solo localmente. Insomma, senza pregiudizi.
Ai “gourmet”, che sono tanti. In effetti da Marchesin de la Riva (scherzo, non me l’hanno ancora dedicata) non me sono mai andato del tutto, avendo casa in zona. La nuova sede, molto accogliente, si presta a molteplici attività in cui potranno convergere le varie manifestazioni dell’arte (musica, scultura, pittura, architettura, teatro…) per contribuire alla definizione del buono e del bello, coinvolgendo sia gli adulti che i bambini. I percorsi formativi però sono distinti. Ai giovani cuochi, che conoscono già i fondamentali, voglio offrire con i miei assistenti l’occasione di affinare le proprie capacità e apprendere un “senso della cucina” che è importante quanto la padronanza delle tecniche. Il ruolo dell’Accademia sarà complementare ad Alma, la scuola professionale che dirigo alla reggia di Colorno, in provincia di Parma. Ai gourmet è riservato invece un ciclo di quattro lezioni in cui imparare ad affrontare altrettante “grandi materie”: il pesce, la carne, le verdure e il riso.
Complesso. Vede, Milano, come diceva Stendhal, è la città più bella del mondo. O almeno era. Per me che l’ho vista ai tempi d’oro, da bambino, con El Tombon de San Marc (non il locale ma la vecchia darsena) e tutti i Navigli ancora aperti immersi nella nebbia, poi da giovane adulto come erede designato dell’hotel Mercato che i miei avevano in via Bezzecca (per inciso, ci sono proprio nato, stanza numero 24) e come libero battitore della cultura milanese, tirando l’alba con gli amici artisti (Manzoni, Tadini, Testori, Fontana…) nei locali allora più in voga come il Jamaica o il bar Pino alla Parete. Ecco, la Milano di oggi, con i ristoranti installati nei barconi e la statua di Leonardo, in piazza della Scala, ingabbiata e coperta dalla pubblicità per i mesi (o anni) di un interminabile restauro, è proprio inquadrabile. E non è il semplice passare del tempo di un vecchio nostalgico. Per rendersi conto di cosa ci siamo giocati è bastato ai più giovani andarsi a vedere la bella mostra di Palazzo Morando Milano tra le due guerre. Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le foto di Arnaldo Chierichetti, un’iniziativa che, dipendesse da me, dovrebbe diventare permanente. Detto questo, io sono e resto uno sporco cittadino, mi fa quasi tristezza andar fuori, perché ho bisogno di stare in mezzo alla gente. E in piazza del Duomo, nonostante tutto, ci si incontra ancora per caso…
L’impresa definitiva, forse. Lì farò la mia cucina e vivrò anche, almeno in parte, come facevo all’Albereta di Erbusco. Ma all’Accademia metteremo a punto i piatti da offrire nel nuovo resort e così avrò sempre un’ottima scusa per scappare a Milano. E poi c’è sempre Il Marchesino, di fianco alla Scala, dove devo continuare a esercitare il mio “controllo di qualità” e alimentare, contemporaneamente, la mia passionaccia musicale.
Foto di Matteo Cherubino
Intervista pubblicata su Club Milano 23, novembre - dicembre 2014. Clicca qui per scaricare il magazine.