La General Managerdi Uber Italia, app di noleggio autista on demand valutata circa 17 miliardi di dollari dal Wall Street Journal, hal'aria di una ragazzina (anchese non lo è), si sposta in motorino e da qualche mese è il nemico pubblico numero uno dei tassisti. Una laurea in Bocconi e un Master a New York l'hanno portata prima nella Silicon Valley e poi in Malesia, ma alla fine ha deciso di tornare per cambiare l'Italia.
DI CAROLINA SAPORITI
21 July 2014
Arriva trafelata, ma puntuale, da Pisacco sui Navigli. Il casco in una mano, una borsa dall’aria pesantissima nell’altra: “Il taxi non posso più prenderlo a Milano, almeno per ora”. Si siede ed è pronta per le domande. Benedetta Arese Lucini, anche se l’hai vista in foto (non quelle delle affissioni minacciose appese dai tassisti in giro per la città) o in video, non può non sorprenderti: per l’età, perché dimostra ancora meno anni di quelli che ha, 31 appena compiuti, e per la velocità con cui ragiona e si muove. Difficile credere che una ragazza così giovane possa rappresentare una minaccia per il popolo dei tassisti italiani.
In effetti mi piacciono le sfide e nel mondo startup bisogna essere determinati e motivati perché quello che fai è portare cambiamento, il che è sempre difficile. Io ho vissuto una vita piena di cambiamenti, sono andata via da Milano a 20 anni e qualunque occasione mi capitasse, facevo la valigia e partivo. In Malesia mi sono trasferita in dieci giorni. Solo che questo tipo di difficoltà sono personali e me le sono cercate. Con Uber è diverso, per me è un’enorme opportunità, ma è anche una grande difficoltà perché per la prima volta mi scontro con una realtà impregnata in un vecchio modo di fare. Il mercato della mobilità urbana è quello che è cambiato meno nel tempo ed è anche uno di quelli in cui la tecnologia è arrivata più tardi.
Penso ci siano stati dei meccanismi negli anni che hanno impedito la creazione di competizione, soprattutto in Italia. Anche quando politici come Bersani e Monti hanno provato ad apportare cambiamenti, le grandi città hanno fatto resistenza, facendo male ai cittadini.
La cosa bella di Uber è che tutte le città sono molto indipendenti nel management, ma abbiamo dei team interni legali e di policy che ci aiutano quando chiediamo supporto. Poi c’è Travis (Kalanick, uno dei fondatori e CEO di Uber, NdR) con cui interagisco costantemente. Sia io sia il mio team siamo stati diffamati, ma Travis ha riportato tutti sulla missione originaria e sulla visione long term.
La sharing economy ha cominciato a svilupparsi fortemente con la crisi del 2008, quando i beni acquistati valevano poco e le persone facevano fatica a mantenerli. Negli altri settori è stato meno forte l’impatto perché ci sono stati altri cambiamenti nel tempo, per esempio le piattaforme di pricing come Expedia o app come Hotel Tonight... Il mondo del trasporto pubblico invece ha sempre avuto un unico protagonista, il taxi. A dire il vero taxi e NCC hanno sempre avuto un po’ di problemi di competizione, ma gli NCC sono una realtà piccola, quindi non hanno mai creato grandi problemi. Uber li ha uniti, ha creato una forza più grande e un concorrente a cui i tassisti non erano abituati. Un autista di taxi non ha nessun incentivo a offrire un servizio eccellente perché è improbabile che riveda un cliente e non ha la pressione del feedback a fine corsa, come invece avviene con Uber. Se un nostro cliente ci valuta negativamente, chiediamo il motivo, rispondiamo e, se serve, aggiustiamo la corsa con un rimborso, così l’autista capisce che non può fare il furbo. La tecnologia ha creato una pressione che i tassisti non hanno mai avuto e ha forzato il settore a un miglioramento del servizio. La resistenza è data dal fatto che i prezzi potrebbero scendere.
Bisogna stare attenti al discorso delle licenze perché adesso i tassisti pagano le tasse sulla vendita di queste, ma un tempo erano gratuite, pubbliche e venivano assegnate con un bando. Visto che la città di Milano, e anche le altre, sono cresciute, e il numero delle licenze è rimasto fisso, si è creato un mercato nero, in cui gli autisti si vendevano le licenze tra di loro, senza che i soldi tornassero al Comune. È un problema che si sono creati da soli. È vero che la licenza se la sono comprata, ma si chiama rischio d’impresa. Questo discorso poi ha senso per quei tassisti che l’hanno acquistata recentemente, ma chi l’ha comprata dieci, venti anni fa l’ha ammortizzata.
La prima differenza è che UberPop è urbano, mentre Bla Bla Car è interurbano. Secondo, loro si considerano un social network di persone che fanno car sharing, noi invece siamo una app che le mette in contatto. Terza differenza, lo scambio di denaro con Bla Bla Car è ancora, almeno in Italia, fisico mentre il nostro è via app. Entrambi i servizi considerano il pagamento un rimborso spesa che noi però calcoliamo attraverso le tabelle ACI, mentre su Bla Bla Car lo decide a sua discrezione ogni autista.
Entrambe perché mentre UberBlack utilizza un trasporto già esistente, UberPop (o UberX come lo chiamiamo in America) ha creato un nuovo mercato. Negli USA siamo riusciti in alcuni stati come la California, DC e il Colorado, che l’ha appena reso legge, a regolamentare questo servizio: le città ne hanno capito i benefici. È un servizio molto variabile che non va strutturato come quello pubblico, ma che si aggiunge a esso nei momenti di difficoltà, di notte, nelle zone dove il trasporto pubblico è carente.
UberPop è presente in sette città, stiamo educando il mercato. La Spagna e l’Italia sono i due paesi più irrequieti. Adesso comunque abbiamo dei dati significativi e delle leggi da condividere con i legislatori in Europa.
Noi ci stiamo già incontrando con enti locali e nazionali e Istituzioni, è un lavoro che faccio regolarmente e adesso che è diventato un caso nazionale il ministro lo sta affrontando. Abbiamo chiesto un incontro e stiamo aspettando una data (un incontro tra Uber, Letzgo e il ministro Lupi è avvenuto il 1° luglio, NdR).
Non so se sarei capace di rivestire quel ruolo, so che è una questione difficile perché qualsiasi decisione di cambiamento comporta delle difficoltà, non c’è una soluzione che può rendere tutti felici. Senz’altro coglierei l’occasione di Expo: in questi momenti di altissima domanda non si può cercare di risolvere il problema aggiungendo licenze taxi, perché finito l’Expo rimarrebbero un costo fisso. L’idea dovrebbe essere quella di usare la sharing economy e monitorarla, metterla alla prova. In Italia non siamo gli unici a fare ride sharing in città, bisognerebbe provare tutte le app esistenti nei sei mesi dell’evento e alla fine analizzare i dati e capire se continuare a usarle e come. Abbiamo un’occasione perfetta, non c’è bisogno di fare una legge adesso, va messa prima alla prova.
A Chicago è stato fatto uno studio indipendente che ha rivelato che, una volta inserite queste alternative di traporto, il settore si è aperto, non è diventato più competitivo, ma più largo. Perché le persone non usano solo un servizio, ma si affidano alla mobilità pubblica che è sicura, affidabile, meno cara, “rinunciando” al trasporto privato. Non solo, nel 2013 Uber ha creato a Chicago 1000 posti di lavoro indiretti, 46mila dollari di PIL extra per la città e in più ha portato 25 mila persone, che usavano la propria automobile, ad avvicinarsi alla mobilità pubblica. Siamo complementari ai taxi, non competitivi.
Sì, vorremmo portarli sulla nostra piattaforma, in questo modo l’utente collegandosi alla app potrebbe decidere la soluzione migliore. Stiamo lavorando con i singoli tassisti e con le categorie per cercare di organizzare incontri. È un argomento delicato, ma continuiamo in questa direzione. A Londra è attivo dall’11 giugno. A New York, invece, l’ex sindaco Bloomberg ha fatto un test. Per un anno ha dato il permesso a noi di Uber e a un’altra app di essere piattaforma per i taxi. In un anno ci siamo cercati i tassisti, abbiamo fatto gli accordi, creando un sistema che Bloomberg ha chiamato e-hailing (hail vuol dire chiamare un taxi con un cenno della mano in inglese, NdR) e siccome funzionava, l’ha esteso per un altro anno.
No e non l’ho mai avuta. A parte che ho cambiato città molto di frequente, ma da sempre ho abbracciato questo sistema: uso BikeMi, Uber, usavo i taxi, altri servizi di car sharing e poi ho il mio motorino.
Uber ha il vantaggio di essere un brand, sai qual è la qualità del servizio, che è uguale a Bogotà, Singapore o Capetown quindi lo preferisco, dove c’è.
Dal fatto che è un servizio un po’ più bello. Deve essere competitivo sulla qualità del servizio. D’altra parte però la nostra corsa inizia quando il cliente viene caricato e non dalla chiamata come avviene con i taxi, questo crea un senso di trasparenza che può valere quel 20% in più.
Le donne a cui mi ispiro sono quelle che non hanno rinunciato alla carriera. So che suona strano in Italia, ma è così. Per me Marissa Mayer (CEO di Yahoo, NdR) è un grande esempio.
Foto di Matteo Cherubino
Intervista pubblicata su Club Milano 21, luglio – agosto 2014. Clicca qui per scaricare il magazine.