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MUSICA

Angelo Trabace

La vita è come i tasti di un pianoforte

Abbash è il nuovo album di Angelo Trabace, disponibile dal 9 maggio in digitale e vinile per Cassis Records con distribuzione Artist First. Sabato 24 maggio, l’artista sarà ospite di Piano City Milano, per un suggestivo concerto all’alba

DI DARIO BUZZACCHI

21 May 2025

Suonare all’alba, mentre la città si sveglia e il silenzio lascia spazio ai primi rumori del giorno. Nella cornice speciale dell’Arena Civica Gianni Brera, il 27 maggio Angelo Trabace porterà dal vivo Abbash, il suo nuovo progetto discografico, in occasione di Piano City 2025. Un concerto piano solo in uno dei momenti più suggestivi del festival, che metterà in dialogo musica, natura e paesaggio urbano. Il titolo del disco prende spunto da una parola del suo dialetto lucano, che significa “giù”, “verso il basso”, e diventa il punto di partenza per un racconto musicale fatto di radici, memoria, cambiamento. In attesa di ascoltare Angelo e il suo Abbash dal vivo, questo è quello che ci ha raccontato.

“Abbash” è una parola del tuo dialetto. Quando hai capito che poteva diventare anche il cuore di un disco?

“Abbash” è un termine che mi accompagna sin da bambino, mi ha sempre affascinato il suono con cui veniva pronunciato da parenti e amici per indicare l’Italia meridionale. Ho capito che poteva assumere un significato più universale quando ho letto James Hillman, che nel suo Codice dell’anima, scrive che “crescere è discendere”, immaginando un albero capovolto, con le radici nel cielo, e una discesa graduale verso le profondità dell’essere umano. Questa visione mi ha ispirato, trasformando questa parola arabeggiante, che letteralmente significa “giù, sotto”, non solo in un luogo geografico ma anche nella direzione di un mio viaggio interiore.

Nel disco si sentono forti le tue radici lucane, ma anche suoni più moderni e internazionali. Che tipo di equilibrio cercavi tra passato e presente?

In questa domanda c’è parte della risposta… Perché scrivere musica per me ha a che fare proprio con la ricerca di un equilibrio tra passato e presente, ma non so se ci sono riuscito. A volte il passato e il futuro sono elementi troppo ingombranti nelle nostre vite e ci limitano nel vivere il presente, la musica però mi aiuta a sospendere il tempo, a dimenticarmi chi sono e da dove vengo, ma allo stesso tempo mi aiuta a capire di cosa sono fatto. 

Sei originario della Basilicata ma vivi a Milano. In che modo questa città entra nella tua musica?

Milano mi da la possibilità di vivere in una dimensione internazionale pur mantenendo ancora (per fortuna) l’eredità di una forte cultura popolare. A volte penso che la mia musica vada alla ricerca di certe immagini legate alla mia infanzia e alle mie origini proprio perché vivo in questa città. In qualche modo qui abito una mancanza, e non mi dispiace, anche se negli anni ho imparato a conoscerla meglio e ho trovato tanti paesi al suo interno. 

Not to disturb the neighbors nasce in un palazzo milanese, di notte. Come vivi il rapporto con la città quando tutto tace?

Lo vivo malissimo, perché secondo me un musicista e in generale gli esseri umani non possono vivere in condominio… A volte quando tutto tace mi verrebbe voglia di suonare ma non posso, per un periodo ho provato a usare le cuffie usando un piano digitale ma la mia vicina si è lamentata anche del “rumore delle dita sui tasti”, incredibile. È il motivo principale per cui scappo spesso da Milano. Forse è da questa frustrazione che nascono i brani più intimi, quasi sussurrati, a volte mi stupisco riascoltando o leggendo alcuni appunti notturni perché sono abbastanza stranianti e indifesi… Se la mattina dopo mi piacciono ancora allora ci lavoro.

Casa degli Artisti, dove hai presentato l’album, è uno spazio molto particolare. Che legame hai con i luoghi culturali di Milano?

Le arti visive sono una mia grande passione. Ultimamente ho avuto l’opportunità di sonorizzare dal vivo al pianoforte un’audio-guida realizzata con lo scrittore Valerio Millefoglie, per la Casa Museo Boschi Di Stefano, un luogo straordinario in via Giorgio Jan a Milano. In generale adoro l’atmosfera che si respira negli atelier e mi piace andare alle mostre (esclusi i weekend), anche se mi rendo conto che i prezzi dei biglietti non sono accessibili per tutti e questo rischia di rendere la fruizione della cultura qualcosa di sempre più esclusivo. Mi piacerebbe vedere sempre più realtà come Casa degli Artisti anche nelle periferie: la riqualificazione di certe aree passa necessariamente attraverso la creazione di spazi alternativi al turismo di massa: per me una libreria indipendente, una palestra popolare o un laboratorio teatrale, ad esempio, possono davvero rivoluzionare la vita di un quartiere, offrendo nuove prospettive ai giovani e rafforzando il senso di comunità.

A Piano City suonerai all’alba. Che tipo di atmosfera ti aspetti da un concerto a quell’ora? E come cambia il tuo modo di suonare? 

Sinceramente non so cosa aspettarmi perché non ho mai fatto un concerto all’alba in piano solo, però mi affascina l’idea di suonare con un “soundscape” che la città possiede solo a quell’ora, quando tutto comincia a svegliarsi… Il fatto di suonare all’aperto condizionerà inevitabilmente la mia performance, rendendo in qualche modo anche me stesso uno spettatore. Non avendo il controllo di ciò che accadrà intorno a me, spero di lasciarmi andare e di respirare ogni nota con gli occhi al cielo… Anche se, romanticismi a parte, un fascio di luce o una folata di vento potrebbero cambiare anche in peggio il modo si suonare. Credo che dipenderà soprattutto da quante ore riuscirò a dormire prima dell’esibizione…non ho ancora deciso se riposare o passare interamente la notte in bianco.

Hai lavorato con molti nomi della musica italiana, da Colapesce e Dimartino a Vasco Brondi. Come questo confronto entra poi nel tuo progetto individuale e (in questo caso) familiare?

Quando studiavo al conservatorio ascoltavo di nascosto i cantautori perché il mio maestro aveva idee molto rigide ed era per così dire allergico alla “musica leggera”. Dopo il diploma di pianoforte, all’età di vent’anni, decisi di mettere da parte lo studio della classica, che all’epoca era ancora molto incentrata sulle competizioni e i concorsi, per dedicarmi a ciò che realmente mi interessava in quel periodo… Così mi iscrissi alla facoltà di Lettere Moderne a Bologna e per pagarmi gli studi ho cominciato a fare serate in giro, di lì a poco avrei cominciato a lavorare col mondo della canzone. Il mio progetto individuale è nato ufficialmente solo negli ultimi anni perché ho sentito il bisogno di recuperare un rapporto “sano” col mio strumento, ed è stato il pretesto per cominciare a cimentarmi nella composizione e l’occasione per riunire la mia famiglia sia in studio che sul palco. Mio padre Peppino, un insegnante di musica ora in pensione, è infatti un ottimo flautista e sassofonista, e mio fratello Alessandro (nove anni più giovane di me!) è un violinista e polistrumentista incredibile, che mi aiutato e incoraggiato soprattutto nella fase embrionale della scrittura di questo secondo disco.

C’è un brano del disco a cui sei più legato? Uno che, più degli altri, racconta chi sei oggi?

Forse Don’t be afraid of black notes, una dichiarazione d’intenti che faccio a me stesso per accogliere senza paura oltre il bianco, anche il nero e l’oscurità che questa vita spesso ci presenta, provando a suonarli assieme… Come i tasti di un pianoforte.

In apertura, Angelo Trabace. Foto di Michele Battilomo

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