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STORIE

Stefano Boeri

IL MIO REGNO PER UNA VESPA

DI Alessia Delisi - foto Matteo Cherubino

29 May 2017

di Alessia Delisi - foto di Matteo Cherubino

Dal 12 al 18 giugno il capoluogo lombardo ospiterà la prima edizione di Milano Arch Week, un grande contenitore di iniziative che, sotto la sua direzione artistica, animerà le sale della Triennale di Milano e il Teatro Continuo di Burri del Parco Sempione. Dopo la settimana della moda e quella del design, Milano punta a diventare un punto di riferimento per l’architettura internazionale?

Milano lo è già: lo è stata in passato, per esempio nel dopoguerra, quando insieme alla Torre Velasca e al Pirellone qui sono nati edifici straordinari, studiati in tutto il mondo come esempi di innovazione e modernizzazione di un tessuto urbano duramente colpito dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale. Oggi Milano è tornata a essere una delle capitali dell’architettura internazionale grazie al fatto che ci sono una decina di architetti tra i migliori del mondo che ci lavorano, hanno lavorato o lavoreranno. Ma è tornata anche perché alcune sfide - penso a Expo, agli scali merci - la proiettano sulla scena internazionale come città in grande trasformazione. È tornata infine perché Milano ha nella sua storia un’istituzione come la Triennale, che è nata attorno all’architettura e al design. Poter fare questa operazione proprio in questo luogo mi pare un importante segnale di rilancio. Per quattro anni ho promosso il festival MI/ARCH all’interno del Politecnico: quest’anno con il rettore Ferruccio Resta abbiamo immaginato di portarlo in città. Il sindaco ne è stato entusiasta e ha rilanciato coinvolgendo la Triennale. La Milano Arch Week è promossa quindi dal Comune, dalla Triennale e dal Politecnico, cioè da tre grandi istituzioni pubbliche che si fanno carico di raccontare il futuro della nostra città.

Può darci qualche anticipazione sul palinsesto di eventi previsti?

Lo stiamo ancora costruendo, le anticipo però che ci saranno architetti provenienti un po’ da tutti i continenti, come Peter Eisenman, che è uno dei grandi nomi dell’architettura nordamericana, e Liz Diller, altro architetto americano, autore con i suoi soci dell’High Line di New York. Ci saranno poi progettisti asiatici e africani, tra cui Francis Kéré, originario del Burkina Faso e autore del prossimo Padiglione della Serpentine Gallery di Londra. Molti anche i sudamericani, come il colombiano Giancarlo Mazzanti, gli europei - penso a Winy Maas MVRDV - e naturalmente gli italiani: oltre ai nomi che hanno fatto la storia di Milano - come quello di Aldo Rossi che sarà probabilmente affiancato da una riflessione su Giovanni Testori – avremo anche Massimiliano Fuksas. La cosa più interessante di questo evento è però il fatto che chiama a raccolta le diverse proposte che vengono dalla città, dagli ordini professionali, dalle scuole, dalle riviste. Durante questa settimana infatti le case museo di Milano apriranno le loro porte con una serie di eventi pubblici, l’ordine degli architetti organizzerà degli itinerari, ci sarà una sezione dedicata alla fotografia del paesaggio con una lezione di Oliviero Toscani sul rapporto tra l’architettura e la fotografia, mentre un’altra sezione sarà dedicata al cinema con la lezione inaugurale di Amos Gitai, questa volta sul rapporto tra il cinema e l’architettura. Una delle cose che caratterizzava il MI/ARCH era poi il Vesparch, cioè, sull’esempio di Nanni Moretti, degli itinerari in Vespa nelle architetture metropolitane guidati da me e Cino Zucchi. L’anno scorso siamo stati sugli scali merci, mentre due anni fa abbiamo percorso le architetture di Magistretti e Caccia Dominioni. Quest’anno, in occasione della Milano Arch Week, vorremmo attraversare le periferie per vedere non solo l’architettura, ma anche la condizione urbana e la situazione sociale, perché se c’è una questione che va affrontata con coraggio a Milano è quella di alcune zone più esterne dove c’è ancora un grande disagio.

Recentemente è stato nominato esperto per la ricostruzione dei centri abitati e degli edifici danneggiati dal sisma: quali interventi prevede al fine di salvaguardare la complessità storica, artistica e paesaggistica di questi luoghi?

È un tema difficilissimo, perché il terremoto ha coinvolto quattro regioni, ovvero un un’area molto vasta del territorio, danneggiando in modo diverso un’innumerevole quantità di agglomerati urbani. Il lavoro che stiamo facendo insieme agli ordini professionali delle otto province del cratere è al momento quello di mappare tutte le situazioni di danneggiamento, provando a immaginare degli interventi per ciascuna di esse. C’è poi un altro aspetto fondamentale: la ricostruzione richiede un tempo medio-lungo, ma necessita che da subito si pensi a una condizione temporanea. Non possiamo lasciare questi centri urbani senza le scuole, gli ambulatori e soprattutto i luoghi di lavoro, perché altrimenti le loro comunità sono destinate a scomparire.

Lei è un personaggio “liquido”, per dirla con Bauman: non solo architetto, ma anche politico, urbanista, professore universitario, direttore di riviste, organizzatore di eventi... come concilia questa moltitudine di ruoli?

Io sono un architetto: un architetto che ha cercato di utilizzare le proprie risorse nel campo della politica e di sviluppare il proprio sapere facendo il docente universitario. Sono stato direttore di due riviste di architettura, quindi sì, ho fatto il direttore editoriale, ma sempre avendo l’architettura come fuoco di tutta la mia attività, perché quello che mi appassiona è la trasformazione degli spazi abitati e l’anticipazione del futuro di questi spazi... Cioè, in una parola, architettura.

Il Bosco Verticale è l’edificio più bello del mondo: a dirlo è l’International Highrise Award di cui è stato insignito nel 2014 e il Best Tall Building Worldwide vinto l’anno successivo. Così bello da essere stato addirittura esportato, a Losanna prima - dove prende il nome di Torre dei Cedri - e più recentemente a Nanchino, in Cina. Qual è il segreto di questo successo?

Io dico scherzando, anche se non poi così tanto, che è una casa per alberi e volatili che ospita anche umani: per ogni abitante del Bosco Verticale ci sono infatti due alberi, dieci arbusti e una ventina di piante, mentre l’intero edificio equivale a circa due ettari di foresta. In questo senso è un modo per affrontare una serie di problemi: primo fra tutti quello della qualità dell’aria. Ma c’è anche un secondo intervento legato alla riduzione dei consumi energetici, perché il microclima che si crea tra la parte esterna dell’edificio e la parte protetta dalle piante riduce l’escursione termica. Poi c’è una questione legata alla biodiversità: ci sono più di cento specie di piante e venti specie di uccelli in quell’edificio. Questo significa che è un vero e proprio eco- sistema. In fondo gli edifici alti degli ultimi vent’anni sono stati quasi tutti realizzati con facciate di vetro: sostituire al vetro un elemento biologico che cambia colore a seconda delle stagioni – e che quindi è anche una specie di misura del tempo – è la vera novità.

Come è nato il progetto?

È nato dal ricordo di un romanzo di Calvino, Il barone rampante, ma anche dal ricordo di una casa che aveva progettato mia madre in un bosco a Osmate. È nato da una mia ossessione per gli alberi e forse anche dal fatto che ero a Dubai in un momento in cui stavano nascendo circa duecento grattacieli di vetro e mi sono chiesto quanto senso avesse costruire strutture di questo tipo. Nel tentativo di immaginare una città più verde, demineralizzata nelle superfici, nasce l’idea di un edificio dotato di alberi.

Bosco Verticale a parte, qual è per lei l’architettura più bella del mondo?

Il Salk Institute for Biological Studies, un istituto di ricerca progettato da Louis Kahn a La Jolla, in California. È un edificio a gradoni, straordinario perché anziché dare sull’Oceano, dove sorge, dà sull’interno, per cui salendo non si vede il mare, ma si sente il rumore delle onde. Quell’edificio, visitato con mia madre all’età di 17 anni, mi ha fatto decidere di studiare architettura.

Parlando ancora di verde, per Milano prevede anche un “fiume” dello stesso colore: di cosa si tratta?

Si tratta di utilizzare gli scali merci dismessi, che sono sette, ridisegnando anche tutte le fasce dei binari che li collegano: su questa superficie lineare di circa 30 km vogliamo progettare un grande sistema verde continuo. Il progetto non è solo sostenibile - perché si edificherebbe sui bordi i quali consentono di costruire tutte le volumetrie previste e anche di più – ma è convincente anche nei costi. È un progetto verde e insieme di mobilità, perché l’idea è di creare una “circle line”, ovvero un anello continuo di trasporto pubblico che ridurrebbe la mobilità privata e amplierebbe l’Area C. Non solo: sotto l’anello c’è un sistema di geotermia, cioè una serie di tubi che prendono l’acqua di falda, che a Milano è altissima, e la usano per ridurre i consumi delle case, perché l’acqua di falda è sempre più calda d’inverno e più fredda d’estate di quella di superficie.

Il suo ultimo libro, “La città scritta”, pubblicato nel 2016 da Quodlibet, altro non è che la sua tesi di dottorato rielaborata e ampliata: come è cambiata in quasi trent’anni la sua visione della città?

È cambiata molto, perché Milano è cambiata, anche se alcuni elementi di fondo restano, come il fatto che è una metropoli geograficamente piccola, ma ricchissima di eccellenze e individualità. Milano è una metropoli in cui il noi è sempre una somma di io che vanno tutti garantiti nella loro capacità imprenditoriale e di innovazione. Milano è una città per tradizione generosa e innovativa, che però riesce a dare il meglio di sé solo quando sa essere le due cose insieme. Si pensi alla Ca’ Granda ieri e oggi alla Fondazione Prada, al Museo Armani, al sistema degli edifici di Porta Nuova, a CityLife e al Museo delle Culture.

Cos’altro le piace di Milano?

Milano per me è intensità, che non vuol dire solamente ricchezza e successo: è varietà di situazioni e insieme enorme densità nello spazio.

Cosa invece non le va giù?

Non mi piace la situazione attuale delle squadre di calcio: Milano non può permettersi di avere due squadre così mediocri.

Ritenterà la strada della politica?

Io ho fatto politica perché mi interessava fare il sindaco di Milano, mi interessava cioè usare la politica per progettare la città. Nel mio periodo di assessore è stato fatto moltissimo: ecco, quella per me è stata un’esperienza fantastica, che purtroppo si è interrotta brutalmente. Quindi: politica nel senso di continuare a occuparsi di Milano sì, politica nel senso di candidarsi dentro un partito no.

Intervista pubblicata su Club Milano 38, maggio - giugno 2017. Clicca qui per scaricare il magazine.

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